Capitolo 48. Bodie

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Capisco che Ryss ha ragione dopo tre settimane, quasi a fine gennaio. Non è una cosa istantanea, non è che mi alzo una mattina e mio padre è morto, no, questo no. Ma mi alzo una mattina e mi rendo conto che noi il Capodanno non l'abbiamo festeggiato; mi alzo una mattina e mi rendo conto che, nonostante le scritte sulle copertine delle riviste e su Internet, sono un cesso. È la prima mattina in cui mi lavo la faccia perché voglio farlo e non perché devo farlo.

Mi alzo, la mattina dopo, e mi sento ancora così. Mi alzo con Ryss schiacciato contro una spalla, il muro freddo contro l'altra, ma non sto male. O meglio, c'è un vuoto dentro di me, però non è un vuoto del tutto negativo; prima si stava aprendo sempre di più, tirava i tendini del mio corpo, adesso è fermo, si è formato e sta lì, in attesa di un momento successivo in cui lo riempirò di nuovo.

Oggi, quando mi sveglio con Ryss che russa accanto a me, so cosa devo fare. Mi alzo e tiro su la tapparella, poi mi infilo un paio di jeans, la camicia e il giaccone, e mi do una pettinata davanti allo specchio.

«Dove vai?» chiede Ryss, alzandosi a sedere sul letto e strofinandosi la faccia con una mano.

«Al cimitero» rispondo con un mezzo sorriso forse un po' fuori luogo.

Ryss mi osserva un attimo, i capelli tutti scompigliati e un segno del cuscino sulla guancia. «Stai bene?»

«Molto meglio di prima» gli do una pacca sulla spalla. «Torno fra un'oretta, okay?»

«Okay».

Esco di casa e scendo le scale del palazzo, fermandomi a salutare la proprietaria prima di prendere la strada per la San Christopher. Vado a piedi, costeggiando il parco giochi che a quest'ora del mattino è vuoto, tutti i bambini a scuola. Passo anche davanti alla scuola, prendendo il tragitto più lungo, e osservo l'ingresso vuoto. Fa ancora così strano non essere là dentro, essere qui fuori. Forse non per quelli che conoscevo, ma per tutti gli altri ragazzi, specialmente quelli del primo anno, io sono già un adulto. Io, un adulto! Do un'occhiata alle finestre, nella speranza di scorgere un po' della vita che ho lasciato, ma mentre me ne sto lì fermo una voce richiama la mia attenzione.

«Watkins!» da dietro la recinzione del campo, la professoressa Trincket sventola una mano per salutarmi. Dietro di lei, un vasto gruppo di quattordicenni si sono fermati per venire a vedere.

La raggiungo, ficcando le mani nelle tasche della giacca, e quando mi avvicino abbastanza mi accorgo che mi sembra più giovane di quanto mi pareva l'anno scorso.

«Come stai, caro?» il suo tono è più dolce, ma è anche vero che lei mi ha sempre adorato, non so perché.

«Bene, lei?»

«Ah, come al solito! Ho saputo che tu e Crest lavorate nell'industria musicale» si appoggia un po' alla recinzione, assumendo con me un atteggiamento rilassato e paritario che non le avevo mai visto. «Mia figlia ha comprato questo cd e quando ho visto i nomi ho detto "Non saranno mica loro?". Poi ho visto che c'erano anche la signorina Browne e Seth Spalding, allora sono stata sicura».

«Si, siamo in tour adesso» annuisco. «In realtà siamo in pausa, riprendiamo a marzo».

«Ho saputo di tuo padre» quando dice così un po' mi sento male, ma molto meno rispetto alle prime volte. «Mi dispiace molto».

«Grazie» faccio un sorriso che non mi viene poi tanto difficile, poi cambio argomento:«Li fa correre all'aperto a gennaio?». Indico i ragazzi, che ora mi fissano come se fossi venuto a salvarli, interrompendo la loro agonia.

«Lascia stare, mi hanno tolto la palestra per manutenzione» scuote la testa, poi urla a loro di ricominciare a correre. Ci salutiamo in fretta e riprendo il mio cammino. Vorrei passare anche davanti all'Old Rock, per farmi definitivamente prendere dalla nostalgia, ma quello che devo fare è più importante, così vado dritto al cimitero.

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