Capitolo 40. Ryss

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Erano anni che aspettavo la consegna dei diplomi, ma non pensavo sarebbe andata così.

Bodie si sveglia prima di me, il che è già avvisaglia di sventura, e viene ad alzarmi lui, scuotendomi una spalla con insistenza finché non mi sveglio. Protesto, ma lui sostiene che debba farmi una doccia, così mi alzo.

Ci vestiamo insieme, tanto ormai mi ha visto in mutande decine di volte. Io no, però. È la prima volta che lo vedo al naturale, con addosso solo un paio di boxer a quadretti azzurri – ad eccezione delle volte in cui l'ho visto cambiarsi all'Old Rock, ma lì sono troppo impegnato a non far vedere a tutti la mia pelle nuda per osservarlo.

«Pensavo avessi qualche messaggio religioso stampato sulle mutande» ironizzo mentre chiudo la porta della mia stanza per evitare di disturbare mio padre. «Mi hai deluso».

«Vaffanculo» risponde lui, scaricando sul mio letto i suoi vestiti per la giornata di oggi. Dalla finestra entra la luce dell'alba, quella luce tenue e rilassante delle mattine estive, accompagnata dai primi versi degli uccelli che come noi si sono svegliati presto.

Sono un po' in imbarazzo, ma non posso fare a meno di osservare il mio amico. Lui non è mica un mucchietto di ossa come me. È magro, ma ha quel po' di carne che lo fa sembrare una persona normale; ha le gambe lunghe e toniche, le spalle un po' più larghe delle mie e se gli tocchi il braccio non senti solamente le ossa.

«Capisco che la visione del mio corpo sia inebriante, ma se rimani lì impalato faremo tardi» dice, facendomi l'occhiolino, e io sento il viso evaporare per la vergogna.

«Non ti stavo fissando» balbetto, infilandomi i pantaloni.

«Lo so». Mi fa un mezzo sorriso, allacciandosi la camicia.

«Perché metti prima quella?» chiedo.

«Perché così è più facile infilarla nei pantaloni» risponde, come se fosse una cosa totalmente normale, ma a me scappa da ridere.

«Ti infili la camicia nei pantaloni?» lo prendo in giro. «Cos'hai, ottant'anni?»

«Novanta» ribatte sistemando i lembi della camicia bianca sotto la cintura. Riconosco quella camicia all'istante: è quella che aveva addosso la prima volta che l'ho visto all'orchestra, anche se adesso non ha più la macchia di caffè. Non so come, ma riesco a capire che è quella.

Una volta che ci siamo messi in tiro con tanto di cravatta, ci proviamo le toghe nere e prendiamo fuori i capellini con quel coso che penzola. Orrendi.

«Promettimi una cosa» dico, quando siamo vestiti. «Se mai diventiamo famosi, non pubblicare mai foto di oggi».

«Promesso» risponde e prende in mano la polaroid, fotografandomi a tradimento. Mi offro di fargli una foto anch'io e per la prima volta mi rendo conto che Bodie non si fa mai delle foto. Io ho avuto un momento, un paio di anni fa, in cui mi facevo foto in continuazione: evidentemente mi sentivo molto bello.

Bodie non ha paura di farsi scattare una foto, ma quando la vede comincia a criticarla senza pietà.

«Mamma mia, guarda che bocca ho» brontola sedendosi sul letto, mentre io mi sistemo i capelli. «Sembra un forno. Madonna mia, cosa sono sti capelli? Ho gli occhi a palla».

«La smetti?». Gli tolgo la foto di mano. La guardo e non vedo nulla che non vada; non è nemmeno venuta male. «Stai benissimo, non c'è niente che non vada nella tua faccia».

Sbuffa. «Lo so. È solo un po' d'ansia».

Mentre dice così io raggiungo la scrivania dove da giorni ho abbandonato l'annuario ancora nuovo, mai aperto. Lo prendo e vado a sedermi accanto a Bodie, sfogliandolo in cerca delle pagine dedicate alle foto di coppia e di gruppo. La nostra è insieme ad altre sette foto, tre sulla nostra stessa pagina e quattro sull'altra. In un angolino ci siamo noi due, io seduto a braccia conserte e piegato in avanti, lui in piedi con le braccia piegate a fare quel gesto che significa "Non lo so", entrambi leggermente voltati per guardarci in faccia mentre ridiamo con gli occhiali da sole che ci scivolano sul naso. Questa è una delle più belle foto che io abbia di me.

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