Capitolo 6. Ryss

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Sembra quasi irreale. Ci alziamo e paghiamo, poi torniamo fino alla scuola. Ci fermiamo alla pensilina che c'è proprio lì davanti e aspettiamo un 36. Parliamo di musica, ma in modo diverso da com'era con Steven. A lui piaceva avere ragione; qualsiasi cosa dicessi, doveva ribattere o correggermi. Quel gruppo non è punk, è pop. Quel film non può piacerti, la regia è da schifo. Non ha senso che ti piacciano le lezioni di letteratura di Johnson, sono noiosissime.

Bodie è totalmente il contrario. «Ti piacciono i Fall Out Boy?» chiede mentre saliamo sull'autobus.

«Certo» rispondo.

«Fico. Ho un poster, a casa» scivola su un sedile accanto al finestrino e io mi siedo vicino a lui. Anche Steven, negli ultimi tempi, faceva così: si sedeva al finestrino, metteva le cuffie e guardava fuori per quasi tutto il viaggio, senza dire una parola. Ma Bodie continua a parlare:«Cioè, non lo posso appendere però c'è».

Che razza di famiglia non lascia appendere al proprio figlio un poster in camera? Insomma, è una band, mica uno slogan satanico. Mio padre sarà anche una merda, ma per lo meno nella mia stanza mi lascia fare quello che voglio. Quello è il mio territorio, dice lui, è un problema mio.

«Perché non puoi?» chiedo.

«Perché i miei preferiscono che ci sia la croce appesa al muro, e io ho già abbastanza pretesti per litigare, non me ne servono altri».

Il viaggio dura una mezz'ora, poi scendiamo in una via che sembra uscita da un film. È pulita, con due file di villette a schiera una di fronte all'altra, tutte chiare con i tetti neri, le staccionate bianche e le buchette della posta dipinte di rosso. Gli alberi hanno già cominciato a perdere le foglie, ma la strada ne è totalmente sgombra. Sembra il paradiso.

Casa sua è poco più in giù della fermata dell'autobus, una villetta con una targa attaccata sopra la porta di legno:Watkins. Alla faccia del nostro campanello che ha un adesivo mezzo staccato con i nostri nomi scritti sopra a mano.

Fa girare la chiave ed entra in quella casa che dentro sembra ancora più perfetta. I pavimenti di legno, i muri dipinti di bianco, le tende a quadretti bianchi e blu alle finestre. È come una di quelle case cristiane del passato, o almeno ne ha l'aria.

«Accomodati» dice e lascia le scarpe nella scarpiera vicino alla porta. Lo imito e poi mi tolgo il giaccone e la sciarpa. Me li fa appendere sull'attaccapanni vicino alla porta della cucina, una cucina così perfetta e immacolata che sembra uscita da un altro mondo. Casa mia è totalmente il contrario, con le tende sfatte, i muri ammuffiti e sporchi, il lavello pieno e il pavimento sempre coperto di polvere.

Passiamo vicino al salotto, dove scorgo un pianoforte di legno scuro, vicino al televisore, e poi saliamo al piano di sopra. Sembra una reggia, anche se in realtà dev'essere poco più grande di casa mia. Ci sono otto porte, ognuna ha una targa attaccata sopra. Bodie, Delilah, Elias, Jael, Joseph e Gary e Olivia. E gli altri due, quelli senza insegne, devono essere bagni.

«Ti dispiace se...?» indico una delle mie porte e lui segue il mio dito, poi annuisce. «Fai pure».

Mi chiudo in bagno e ne osservo le piastrelle lustre, il grosso specchio quadrato sopra al lavandino di ceramica bianca e la cassettiera dello stesso colore di fronte allo specchio. Sull'angolo più alto della superficie riflettente senza cornice è appesa un'immagine di Gesù. Nessuno in questa casa si sente in soggezione ad essere guardato da Gesù mentre fa i suoi bisogni?

Sotto ci sono altre tre fotografie, piccole. Uno è un ragazzo che non conosco, giovane, con i capelli castani e un sorriso larghissimo. Il secondo l'ho presente, ha finito la scuola due anni fa; è castano chiaro, con la mascella lunga e la bocca, una riga appena visibile, inclinata all'insù con un po' di malizia. La terza è la foto di un bambino di tre o quattro anni, con i capelli neri pettinati all'indietro e le guance paffute, un sorriso largo e bianco. Questo è Bodie. Non ci sono foto delle sorelle; immagino che siano nell'altro bagno.

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