Capitolo 27. Ryss

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Sono l'ultimo ad arrivare all'Old Rock, ma Seth mi rassicura che loro sono lì solo da qualche minuto.

Nella luce del pomeriggio l'Old Rock sembra quasi malinconico. L'aria che sferza contro di noi fa danzare tristemente i fogli della bacheca, ma nonostante questa desolazione questo posto non perde la sua magia.

Bodie mi chiede se sto bene. Rispondo di sì. Lui non ci crede, ma si limita a darmi una leggera pacca sulla schiena.

«Ragazzi, io non so se voi vi siete posti il problema,» interviene Maxine, appoggiandosi al muro. «Ma la nostra band non ha un nome»

Oh cazzo. Questa è l'unica cosa a cui non avevo pensato. Abbiamo le canzoni, i testi, gli spartiti, gli strumenti, ma non abbiamo un nome. Non ho mai visto una band senza nome esibirsi all'Old Rock. Sempre ammesso che ci accettino.

Apro la bocca per rispondere, ma uno dei Detonators appare sulla porta. Credo sia Mark, quello che è andato a chiamare Gerard quando sono venuto a chiedere il permesso di attaccare il mio volantino sulla bacheca. Non sembra che si ricordi di me.

Ci squadra rapidamente e sbotta:«Che volete?»

«Siamo una band» rispondo, ma a giudicare dal suo sguardo non dobbiamo sembrarlo molto. «Vogliamo chiedere il permesso di suonare»

«C'è già una band dentro. Dovete aspettare. Venite».

Ci fa entrare nel corridoio che durante le serate è chiuso. È un corridoio lungo, con la moquette nera e senza finestre, un po' inquietante. C'è un neon che scrive Old Rock sulla parete, che brilla di rosso. Ci sono diverse porte, tutte uguali, in legno chiaro, e un odore un po' stantio, di muffa. Sulla porta in fondo c'è un foglio con una scritta fatta col pennarello nero. Detonators.

«Sedetevi lì» ordina Mark, indicando le sedie vicino alla porta, sotto le bacheche semivuote. Poi entra nell'ufficio e ne esce in pochi secondi. Ci ripete di aspettare e sparisce.

«Ci serve un nome» sussurra Bodie.

«Sì, ma ce ne serve uno bello. Definitivo» aggiunge Seth. «Se suoniamo qui, poi ci conoscono con il nome con cui ci presenta Keller»

Discutiamo a lungo, incrociando parole che ci piacciono o che suonano bene insieme su un foglio del mio quaderno, finendo per buttare lì Dancing Tragedy. Non è terribile, ma spero che vada bene a tutti, perché una volta che saremo su quel palco ci dovremmo tenere questo.

Quando la porta si apre e tre ragazze coi capelli capelli tinti ne escono con un'aria vagamente soddisfatta, mi rendo conto che siamo all'Old Rock, che stiamo per entrare in quello che è l'ufficio di Gerard Keller.

«Prossimi!» grida una voce che non riconosco e noi ci alziamo tutti per entrare. È una stanzetta più piccola di quel che pensassi, con due finestrelle in alto nella parete di fronte a noi, chiuse da persiane grigie. Sulla parete a destra c'è una grossa bacheca tappezzata di fogli e fotografie - credo che si tratti di tutti i gruppi che hanno suonato qui. Su quella di sinistra invece c'è una libreria, ma più che libri ci sono plichi di fogli, quaderni, cornici, scatole e altre cianfrusaglie.

La scrivania in ferro è posizionata al centro della stanza, ricorda una cattedra, e ci sono due sedie sistemate dal nostro lato; sopra il tavolo ci sono due vecchi portapenne ricolmi di pennarelli e mozziconi di matite, un registro con la copertina nera e una cornice leggermente girata, in cui è esibita una foto di gruppo di tutti i Detonators. Saranno più di una ventina.

Al di là della scrivania è seduto Gerard Keller, con i piedi sul registro e le braccia incrociate, la frangia di capelli neri che gli ricade sugli occhi truccati con l'eye-liner. Porta una felpa nera, i pantaloni strappati su un ginocchio e sulla coscia e sotto un paio di calze a righe rosse e nere. Ha abbandonato i soliti teschi. Da vicino, mi rendo conto che non è così spaventoso. È robusto, ha il naso dritto e una mascella non troppo pronunciata; credo che se avesse un paio d'anni in meno e fosse a scuola con me penserei che è uno sfigato, magari un emo, e probabilmente mi starebbe simpatico.

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