36. Invisibile

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Un dolore lancinante alla gamba mi fece squarciare il silenzio della baia con un grido talmente disumano che sembrava non appartenermi realmente

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Un dolore lancinante alla gamba mi fece squarciare il silenzio della baia con un grido talmente disumano che sembrava non appartenermi realmente. L'adrenalina mi destò completamente dal quel groviglio di alcol, sofferenza e pensieri confusi che avevano riempito la mia testa fino a poco prima.

Cercai di rimanere a galla nuotando con le braccia. Non riuscivo a muovere la gamba destra. Era come un pezzo di una bambola di stoffa in balia delle onde.

Nate mi raggiunse dopo pochi secondi e mi sorresse. Stranamente non mi chiese se stessi bene. Si limitò a circondarmi il torace con un braccio in modo da lasciarmi galleggiare sulla schiena e limitare i movimenti degli arti inferiori. Nuotò verso riva senza sosta. Non mi opposi per via del dolore e del freddo. Non vedevo l'ora di uscire dall'acqua gelida.

Arrivati dove toccavamo entrambi mi aiutò a mettermi in posizione eretta ma non appena misi il piede sul fondale, una fitta al ginocchio mi fece urlare nuovamente.

Nate mi prese quindi in braccio, sempre senza fiatare, e si diresse verso la sua macchina. Abbassò lo sportello della sua Classe X e mi fece sedere. Prese la borsa dove lasciava sempre il cambio e qualche asciugamano per quando andava a fare surf. Mi spogliò come si spoglia una bambina di cinque anni lasciandomi in reggiseno e mutande. Con un asciugamano mi tamponò il corpo e i capelli senza troppa cura e mi gettò in grembo la sua felpa cremisi di Harvard, senza nemmeno guardarmi in faccia.

Si tolse i pantaloni dell'abito e la camicia e li lanciò senza neanche strizzarli assieme al mio vestito nel pickup. Una volta asciugato e rivestito con i pantaloni di una tuta e una t-shirt, mi riprese in braccio e mi sistemò sul sedile del passeggero. Nella manovra un'altra fitta mi pervase e non riuscii a trattenere un lamento. In quel momento i nostri occhi si incrociarono, ma io non li riconobbi. Le sue iridi erano sempre le stesse, di un blu intenso ma si erano fatte più scure, colme di rabbia. Mantenemmo quel flebile legame visivo per alcuni secondi mentre la sua mascella si contraeva e la sua gola deglutiva vistosamente. Poi abbassò lo sguardo verso la cintura di sicurezza e me l'allacciò.

Guidò fino all'ospedale nel completo silenzio. Risentii il suono della sua voce solo per rivolgersi alla dottoressa del pronto soccorso.

«È mia sorella. Ha bevuto ed è caduta da un pontile picchiando il ginocchio sulla base di cemento.»

«Ok, a vederlo così direi che ha sicuramente qualcosa di rotto. Se non ci sono complicanze, le faremo una radiografia e la ingesseremo. Può entrare in reparto anche lei a farle compagnia se vuole.»

«No, grazie aspetto qui.»

Fu così che mi lasciò da sola, senza nemmeno guardarmi in faccia, mentre l'infermiera mi trascinava via sulla sedia a rotelle.

Lo rividi solo un paio di ore dopo, quando la mia gamba era già steccata e ingessata ed io ero in pieno stato confusionale da ossicodone.

Parlò con l'infermiera brevemente e poi mi riportò a casa sempre nel più completo silenzio.

La mia piccola tempestaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora