40. Contatto di Emergenza

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Mi gettai indietro sulla poltrona, strizzandomi gli occhi per riprendermi da quella giornata infinita

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Mi gettai indietro sulla poltrona, strizzandomi gli occhi per riprendermi da quella giornata infinita. Eran solo le quattro del pomeriggio e non sapevo più cosa fare per distrarmi dai miei pensieri. Era da una settimana che il tempo trascorreva troppo lentamente.

Esattamente da quando avevo incontrato Matt Lee al guardaroba del Parmigiano, il ristorante italiano dove la mia segretaria mi organizzava sempre i pranzi di lavoro con gli autori. Da quel giorno avevo avuto grosse difficoltà a concentrarmi sul lavoro e non solo.

Sabato, quando ero andato a correre, non mi ero nemmeno reso conto di aver percorso cinquantasette chilometri finché il telefono non mi aveva ricordato un appuntamento telefonico con un'agente. Ero uscito di casa alle undici del mattino e alle due e mezzo mi ero ritrovato dall'altra parte della città senza sapere nemmeno come ci ero arrivato.

Negli ultimi cinque mesi nessuno mi aveva più nominato Gabi e già il fatto che faccia da sushi non ci aveva messo nemmeno trenta secondi a chiedermi di lei, mi aveva indisposto in partenza. Sapere poi che la stava cercando da mesi mi aveva fatto venire voglia di rimandarlo dal suo chirurgo plastico di fiducia che, a quanto pareva, aveva fatto un bel lavoro sul suo nasino dopo l'ultima lezione che gli avevo dato. Lezione per altro che non aveva ancora appreso.

Mi ero ripromesso di non provare mai più certe sensazioni per lei, ma a quanto pare le cose funzionavano solo se facevo finta che Gabrielle O'Bryan non fosse mai esistita. Ma dove poteva essere andata per tutti quei mesi? Quando mi ero recato al SunnyT a Natale avevo notato che aveva abbandonato il suo computer e il suo materiale alla villa, deducendo che avesse mollato del tutto la sua attività. Ma non mi sarei mai immaginato che Gabi non fosse più a Montauk.

Per un attimo mi pentii del patto fatto con mia mamma.

La suoneria del mio smartphone mi trascinò fuori dai miei brutti pensieri.

«Nathan Walsh?»

«Sì, sono io. Chi parla?»

«La chiamo dagli uffici amministrativi del Long Island Eating Disorder Clinic. Mi scusi se la disturbo, ma hanno hackerato il nostro sistema operativo e non abbiamo più i dati della Signorina O'Bryan per poterle mandare la fattura finale del suo ricovero e la copia delle dimissioni. Mi ha dato il suo numero l'ospedale di Montauk in quanto suo contatto di emergenza. Lei è suo fratello, corretto?»

Per un lungo istante non riuscii ad emettere alcun suono, né a respirare.

«Signor Walsh? E' ancora in linea?»

«Sì, mi scusi. Sono qui. Può girarlo alla mia mail, glielo farò recapitare io.»

Pochi minuti dopo stavo violando la privacy proprio della persona di cui non avevo più voluto sapere nulla per tutti quei mesi. Senza rendermene conto, mi ritrovai in autostrada diretto verso Montauk.

Parcheggiai sulla strada principale e mi diressi verso la spiaggia davanti a casa di mia mamma e di Connor. Nel giro di poche ore ero passato dal fare finta che non fosse mai esistita a diventare il suo stalker. Fortunatamente non dovetti spiare dentro casa perché lei era sulla spiaggia. E non era da sola.

Correva su e giù per il bagnasciuga facendosi rincorrere da una cucciola di French Bulldog. Sorrideva ed emetteva qualche gridolino degno di mia mamma. La vidi inciampare e cadere a terra, e per un attimo l'istinto di soccorrerla mi fece avanzare di un passo, ma mi ritrassi nel sentirla ridere a crepapelle mentre la sua nuova amica le leccava le guance e abbaiava impaziente di ricominciare a correre. Indossava una delle mie felpe di Harvard, quindi non riuscii a capire in che stato fosse davvero il suo fisico.

Ma da quello che potevo vedere, era serena. Mi sedetti sulla sabbia, nascondendomi tra gli arbusti del sentiero, e feci incetta di quelle bellissime immagini. Stava bene. Ed era quello che contava. Leggere che aveva trascorso cinque mesi in riabilitazione psicologica e alimentare mi aveva gettato in un turbine di sensi di colpa, che mi avevano fatto compagnia per tutto il viaggio fino a Montauk. Ora invece vederla così felice, mi aveva tolto quel peso dal cuore che aveva impedito di battere per tutti questi mesi. Ne era uscita, e questa volta lo aveva fatto da sola. Senza il mio aiuto.

Questo pensiero mi trattenne dall' urlare il suo nome, correrle incontro, baciarla, stringerla e sussurrarle quanto mi era mancata.

Mi limitai a stare lì seduto, finché lei e la sua piccola nuova amica si diressero sfinite verso casa, per poi sparire nella veranda.

Rimasi a fissare le onde con un moto di nostalgia per la mia tavola da surf.

Rivedere Gabi non aveva riportato a galla tutto il rancore che avevo cercato invano di sotterrare ogni singolo giorno, ma mi aveva invece aiutato a lasciarlo andare. La malinconia per la nostra vita assieme non mi avrebbe mai abbandonato, ma ora potevo forse ricominciare a vivere. Almeno un pochino. Un passo alla volta. E forse un giorno sarei anche riuscito a tornare nella casa dei nostri genitori e rivederla.

Qualche goccia di pioggia mi strappò dai miei pensieri, costringendomi a dirigermi verso la mia nuova Tesla. Prima di mettere in moto, presi il telefono e inoltrai la fattura della clinica all'assicurazione di Gabi e tornai alla mia vita a New York.

La mia piccola tempestaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora