1. At daylight she breathes

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Se lei fosse stata il mare, io sarei stato tempesta. E mi sarei lasciato bagnare dalle sue onde fino a quando il cielo me lo avrebbe concesso, nascondendomi dietro al sole in attesa di poter tornare da lei.



 E mi sarei lasciato bagnare dalle sue onde fino a quando il cielo me lo avrebbe concesso, nascondendomi dietro al sole in attesa di poter tornare da lei

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La vita certe volte era strana.
Anzi, lo era quasi sempre.
Era buffo pensare avessimo solo un periodo ristretto di tempo per provare quante più emozioni ed esperienze possibili, per poi sprofondare nel nulla più totale senza sapere cosa ci sarebbe stato dopo.

Era una pessima partita a scacchi senza vinti né vincitori, in cui qualsiasi mossa avrebbe mandato in stallo il gioco fino a quando una folata di vento avrebbe rovesciato i pezzi, sancendo la fine della partita in corso e l'inizio di una nuova con conseguente cambio del giocatore.

Eravamo tutti solo un'infinitesimale insieme di polvere di stelle che tentava di sopravvivere in mezzo all'universo, cogliendo quanto più di buono eravamo in grado di afferrare e lasciando andare a fatica ciò che ci aveva segnato indelebilmente, contribuendo a plasmarci e renderci vivi in un mare di nulla.

Venivamo al mondo piangendo, prendendo enormi boccate d'aria per ossigenare il nostro piccolo corpo tra le urla della persona che avrebbe dovuto amarci più di ogni altra cosa al mondo.
E poi ci adattavamo. Senza scelta, senza consapevolezza, senza sotterfugi.
Passavamo da un liquido caldo e familiare che ci aveva accolti dall'inizio, ad un fluido freddo ed impalpabile come l'aria, che ci arrivava come uno schiaffo in faccia dal primo momento in cui iniziavamo ad esistere sul serio.
Era malinconico e stranamente doloroso realizzare come la nascita consistesse in un abbandono, in una divisione tanto necessaria quanto inequivocabilmente straziante.
Eravamo soli dal primo momento, a combattere contro il resto del mondo per noi stessi senza alcuna possibilità di tregua, come un incontro di pugilato in cui non esistevano time out o riprese per curarsi le ferite. E noi ci provavamo a vincere per KO contro tutto, ma finivamo sempre per perdere o cavarcela ai punti se eravamo fortunati.

Ci pensavo spesso, quando venivo sopraffatta dai pensieri nocivi e potenzialmente autodistruttivi che inalavo nei giorni grigi, quando persino il sole non aveva voglia di uscire allo scoperto e le nuvole ricoprivano il cielo come uno strato di zucchero filato terribilmente amaro.
Mi concentravo, e focalizzavo tutte le mie forze sul convincermi qualsiasi cosa mi stesse capitando fosse solo una briciola nel vuoto infinito.

Mi consolavo per qualche ora, ripetendomi che nulla sarebbe durato in eterno e che forse prima o poi il mio incubo reale sarebbe terminato come un brutto sogno in una notte di pioggia estiva, e avrei finalmente potuto vivere senza la paura e l'angoscia di dover scappare dai mostri.

Ci stavo pensando anche in quel momento, mentre camminavo spedita tra le strade newyorkesi affollate, il vento freddo a sferzarmi la pelle delicata del viso e ad arrossarmi le guance pallide.

Era ormai metà dicembre, i fiocchi di neve cadevano pigri sull'asfalto bagnato ricoprendo di un bianco candido ogni superficie esposta al cielo plumbeo.
Come sempre, ero uscita di casa senza infilarmi un cappello di lana, ed ora i piccoli cristalli di ghiaccio mi stavano ricoprendo il capo, infilandosi tra i lunghi capelli rossi come fossero brillantini spruzzati per decorarli.

𝚩𝐋𝚨𝐂𝚱𝐎𝐔𝐓Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora