CAPITOLO XXVII

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Gli si sedette accanto e continuò ad accarezzargli a più riprese la fronte, come se, con quel tenero gesto, volesse cercare di calmare i tremori improvvisi che gli scuotevano il corpo. La febbre doveva essere molto alta, e questo perché, in alcuni momenti, sembrava proprio che Federico fosse del tutto disconnesso dal mondo circostante. I consueti momenti di lucidità venivano presto rimpiazzati da sguardi vacui e sorrisi incerti, il viso perennemente accaldato, il respiro che, da regolare che era, si faceva via via più affannoso. Vederlo in quello stato straziava Amanda più di quanto lei stessa riuscisse a esprimere con un semplice sguardo.

«Sta' tranquillo, okay? Ci sono qua io, adesso», lo rassicurò lei per l'ennesima volta, il groviglio del suo stomaco che tradiva tutta sua ansia.

Proprio come tu ci sei stato per me durante quel terribile attacco di panico che mi ha colto per strada, quando passeggiavamo insieme per le vie di Torino.

In Amanda, quel pensiero spuntò fuori spontaneamente, dai recessi più remoti del suo cuore. Ricordava i pochi momenti trascorsi con Federico con nostalgia e altrettanta amarezza, come gli sguardi enigmatici, i rari sorrisi e le dolci occhiate che le aveva sempre riservato. Doveva essergli costato davvero tanto affrontare una realtà che, soltanto fino a qualche tempo prima, gli era apparsa a dir poco inimmaginabile – se non addirittura assurda. Doveva essergli costato parecchio lasciare quanto aveva di più caro in quel di San Diego per ritornare nella sua città natale, e tutto pur di conoscere una figlia di cui non sospettava minimamente l'esistenza. Aveva lasciato la sua Roxanne, il suo lavoro; aveva rinunciato al suo prestigio e alle sue aspirazioni professionali pur di arrivare a lei.

Sento che il mio posto è qui a Torino, le aveva detto, giusto qualche mese prima.

Tradotto: sento che il mio posto è qui, accanto a te. Accanto a una figlia la cui compagnia mi è stata privata per ben trent'anni.

A quella constatazione, Amanda provò l'irresistibile impulso di allontanarsi da lui per un momento, la vista annebbiata. Federico aveva chiuso gli occhi, quindi poteva scendere dabbasso per prendere un po' d'aria. E, magari, avvertire Alessandro di tornarsene a casa per festeggiare come si doveva il suo compleanno, assieme alla sua splendida famiglia. Fece per alzarsi e, dopo essersi liberata con garbo dalla stretta di Federico, tentò di avviarsi di soppiatto verso la porta. Lui, però, si risvegliò di soprassalto.

«N-non te ne andare», la implorò, a fatica, gli occhi fissi in quelli della figlia. «Ti prego, Valeria, resta con me», proseguì, quindi allungò il braccio e le sfiorò il polso con delicatezza. «Non mi lasciare un'altra volta

Ad Amanda si fermò – letteralmente – il cuore.

Valeria.

Federico l'aveva appena scambiata per sua madre.

«Perché mi hai lasciato, eh?» continuò lui, straziato. «Tu... tu mi amavi.» Un sorriso delirante, altresì accompagnato da una smorfia di dolore. «Oh, sì, tu mi amavi.»

Amanda non ce la fece più, e un'altra cascata di lacrime le rigò le guance. Nel mentre, riprese posto su quella sedia e continuò a guardare Federico, che adesso stava fissando, con una certa ostinazione, il soffitto della stanza. Scosse la testa, all'improvviso. «Anzi, no... Ero io. Ero io che...» Le strinse più forte la mano, ma senza farle male. «Ero io, quello che ti adorava. E che avrebbe continuato a farlo fino alla morte.» Federico chiuse gli occhi, l'espressione concentrata. Quella stretta, provocò in Amanda sonori brividi in tutto il corpo. «Dio, era così... così bella. La ragazza più bella che avessi mai conosciuto.»

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