Cap. 1 - Tammy. Quel maledetto Daston.

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Giorno del ringraziamento. Un mese a Natale.

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Uno degli elfi di Babbo Natale ha vomitato sul mio cappotto.

Ha delle prolunghe alle orecchie che sbucano da un cappello verde e un pon-pon bianco latte penzola al lato della sua guancia.

«È che soffro di ansia da palcoscenico! Quando avevo tre anni ho vomitato in testa al bambino di fronte a me alla recita di Natale: si chiamava Henry Daston, lo odiavo. Io ero il bue, lui l'asinello. Stasera Frank ed io abbiamo uno spettacolo», mi spiega in fretta e indica Rudolph, la renna alla sua destra, che annuisce facendo tintinnare la campana al collo.

Questa scena è surreale ed io temo di perdere gli occhi per quanto li sto sgranando, quindi torno in tutti i modi a cercare di cancellare quella disgustosa macchia dal mio cappotto.

Forse dovrei alzarmi e cambiare posto. Gli altri vagoni sono pressocchè vuoti perchè a chi diamine viene in mente di saltare su un treno diretto in un paesino fantasma del New Hampshire, il giorno del Ringraziamento, con dieci gradi sotto zero?

A nessuno.

Togliendo me, le renne licenziate dalla slitta di Babbo Natale ed elfi con stomachi suscettibili, a quanto pare.

«Quel maledetto Daston prima ha iniziato a frignare e poi mi ha spinto così forte da farmi finire col sedere per terra. La madre era in lacrime, sembrava lo avessi ucciso! Non che non mi sarebbe piaciuto farlo, ma per l'amor del cielo, era solo un po' di vomito!»

Sfrego la macchia con più forza di prima, fingendo che quella voce non esista, ma mi scappa un urlo isterico quando la brodaglia continua ad allargarsi a vista d'occhio.

La renna si sporge sul sedile e una delle corna si avvicina in modo preoccupante al mio occhio destro. «Tesoro, era uno stagno delle papere e l'hai trasformato nel golfo del Messico».

Gli lancio un'occhiata truce.

Mia sorella dovrà stendermi il tappeto rosso, offrirmi un calice di champagne e lucidarmi le scarpe non appena varcherò quella maledetta porta.

Quando mi ha costretta a tornare a casa per le feste – recapitandomi un biglietto già pagato sulla posta elettronica e una letterina scritta a mano dal mio fratellino, ben consapevole che altrimenti avrei fatto di tutto per rifiutare – avevo messo in conto gli ansiolitici, gli analgesici, persino il treno che si blocca sulla punta di una montagna innevata e tutti noi che moriamo per ipotermia.

Il vomito di elfo deve essermi sfuggito tra un punto e l'altro.

Sto ancora sfregando compulsivamente, quando l'aiutante di Babbo Natale riapre bocca: «Ci esibiamo in un centro commerciale nella periferia di Lancaster. Il Dollarspin. Cibo spazzatura a volontà e bevande di sottomarca gratis. Lo scorso Natale ha rischiato di chiudere per sospetta vendita di prodotti scaduti, pare che un tipo abbia passato la Vigilia all'ospedale. Dovresti venire, sai? Dove hai detto che sei diretta?».

«Whitefield», rispondo tra i denti.

Ci medita sopra. «Esiste davvero?».

«Dev'essere un posto glaciale se è vestita come una suora di clausura e quella sciarpa la copre fino alla fronte», ipotizza la renna.

«Sì, esiste», borbotto. «E glaciale è riduttivo. Passano tre carovane di pinguini al giorno e ci ridono in faccia mentre si dirigono correndo a sud, verso la costa».

Chi ha detto che i pinguini amano il freddo mentiva, lo so per certo. Persino il loro masochismo ha un limite.

«Come quelli di Madagascar», annuisce gioioso l'elfo.

La sciarpa che salvò (incasinò) il Natale.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora