16.

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Il sogno

Dopo quello che era successo la sera precedente non ero riuscita a dormire, non sapevo neanche io dire perché fosse tanto importante per me. Dopo la mattinata e una buona parte del pomeriggio trascorse a continuare a pensare a tutto quello che avevo visto, decisi che era meglio per me andare a parlare con Justin. Ero davanti alla sua porta ma non avevo il coraggio di entrare. Credevo di essere troppo invasiva, se lui mi avesse voluto parlare mi sarebbe venuto a cercare, eppure qualcosa mi teneva lì. Averlo visto in quelle condizioni mi faceva pietà. Ma sapevo che non avrebbe mai accettato il mio aiuto. Il problema era che, oltre al mio desiderio di dargli una mano, c'era anche la curiosità di voler conoscere di più su quella figura misteriosa. Mi feci coraggio e alzai una mano per bussare quando la maniglia si abbassò e, come se mi volesse battere sul tempo, uscì Justin. Sussultai, non ero ancora pronta per quell'incontro.

-Emh... c-ciao.

Riuscii a dire.

Anche lui sembrava sorpreso. Si scansò, mi fece entrare e si chiuse la porta alle spalle.

-Ti stavo giusto venendo a cercare.

Disse entrando nella sua camera segreta. Lo seguii.


- Ieri ti ho cacciata via.


Si guardò le mani con le ferite quasi cicatrizzate, si posizionò sul divano e mi fece segno di sedermi accanto a lui. Lo feci.


-Non preoccuparti.


Mi affrettai a dire, preferivo cambiare discorso per non farlo sentire ancora più male di prima.


-E' che...

Si bloccò e guardò la scatolina nera con il fiocco rosso sul tavolino, quella che anche io due sere precedenti avevo notato.


-Che?

-Niente.

Distolse lo sguardo e si mise a fissare il muro, in silenzio. Decisi di non insistere.

Dopo un paio di minuti disse:

-Che non so cosa significa stare vicino a qualcuno.

Non sapevo cosa dire. Gli era costato molto dire quelle parole.

Lui era sempre stato solo tra i suoi cadaveri e i suoi documenti.

Tutti, infatti, dicevano che non aveva sentimenti. Ecco probabilmente perché non riusciva a stare con me senza innervosirsi o perdere le staffe. Quando gli facevo domande si imbestialiva perché non sapeva come trattarmi.

-Io non conosco un altro modo per rivolgermi a te o a chiunque altro.

Si, perché lui dava gli ordini e i soci eseguivano, non c'era mai uno scambio di opinioni tra lui è i suoi subordinati.

Non era lunatico, solo inesperto.

Portò le mani al viso, coprendo naso e bocca e rimase in silenzio. Io, come al solito, non sapevo cosa dire. Stava quasi per mettersi a piangere e avrei voluto aiutarlo più di qualunque altra cosa al mondo perché odiavo vedere le persone soffrire, soprattutto da quando ero entrata nella società. Sapevo di doverlo aiutare, anche se era la persona più crudele e insensibile della terra. Gli scansai le mani dal viso e lui si girò meravigliato verso di me con gli occhi lucidi.

-Piangi?

-No, è solo che odio quando sono incapace di fare qualcosa.

Disse infastidito e con il piede diede un calcio al tavolino che avevamo difronte, questo si rovesciò a terra. Sussultai. Non credevo che lo infastidisse tanto non saper fare qualcosa di umano, come saper stare con le persone. La sua voce era rotta. Certo, forse trovare qualcosa che non si sa fare per qualcuno che crede di essere bravo in tutto deve essere duro.

These Four WallsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora