35- La Resa Dei Conti (Parte 1.)

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Boccheggiai in cerca di ossigeno, rotolando sul pavimento freddo. La testa mi girava, piena delle immagini del mio passato. Ogni cosa che avevo visto e provato prima. Prima del mio suicidio, della mia scelta a quell' incrocio. Prima della mia seconda vita. Ricordavo tutto, come se quei ricordi non se ne fossero in realtà mai andati via.
Quando la stanza smise di girare velocemente, mi alzai in piedi. Ero ancora un po' stordita, ma riuscii a cogliere i dettagli di dove mi trovavo. La stanza era stretta e buia. Ed era chiusa da delle grate di ferro con un lucchetto. Sembrava in tutto e per tutto una..
«Prigione»
Feci un salto all'indietro dallo spavento, andando a sbattere contro una delle gelide pareti. Una voce di donna aveva parlato, ma lì, con me non c'era nessuno. Guardai tutto intorno, mi affacciai dalle grate di ferro su un lungo corridoio che rivelava la presenza di altre celle, tutte vuote. Non cera nessuno.
Chi sei?
La voce non si ripresentò per rispondere alla mia domanda. Però, al centro della stanza, direttamente dal pavimento, si accese un fuoco, grande su per giù quanto quello di un falò. Lo guardai con interesse. Era strano. Diverso da un fuoco normale. Le sue fiamme passavano dal viola melanzana al violetto chiaro, non illuminando granché quel luogo che era già tetro di suo. E non riscaldava come avevo sperato. Scossi la testa abbattuta e mi appoggiai alle grate. Se quella era una risposta, non l'avevo capita. Lanciai un'ultima occhiata a quel tenebroso fuoco, aspettandomi una lista infinita di disastri che poteva produrre e che io non sapevo nemmeno, poi iniziai a studiare il lucchetto della mia gabbia. Era semplice e all'apparenza, per aprirlo non serviva altro che la chiave. Non ero mai stata brava a scassinare le serrature, in realtà non ci avevo mai provato. Ma quello mi sembrava un momento adatto per iniziare. Sfiorai il ciondolo che si trasformò all'istante in una spada dalla punta ben affilata di Diamanti dello Stige. La lama sembrò brillare ancora più cupamente del fuoco. Mi presi qualche secondo per ammirarla. Ora che avevo recuperato la memoria, potevo ricordare quando Apollo mi aveva regalato il ciondolo, mostrandomi poi cosa fosse in realtà, frutto di Ares. Un piccolo sorriso mi spuntò sulle labbra, e mi morsi il labbro per non farlo vedere. Anche se non c'era nessuno a guardarmi. Strinsi tra le dita l'elsa in oro, rimproverandomi per essermi distratta. Presi in mano il lucchetto e iniziai a manometterlo. Ma dopo dieci minuti di tentativi non ero neancora libera.
«Vedo che hai tanta ansia di uscire.»
La voce si ripresentò. Questa volta sembrava più vicina, piu vera. D'istinto alzai lo sguardo sul falò magico che non si era ancora estinto e non mi sorpresi di vedere una donna, vestita con un lungo chitone greco dello stesso color melanzana del fuoco. Le lanciai un'occhiata furiosa.
Ma certo, avrei dovuto riconoscerti fin dall'inizio.
Come avevo fatto ed essere stata così stupida da non essere stata in grado di riconoscere quella voce? Avrei dovuto associarla subito alla donna dai lunghi capelli biondi, gli occhi completamente neri e la Foschia che le aleggiava intorno come se provenisse da lei stessa. Avrei dovuto riconoscere mia nonna.
Sorrise con il suo solito sorriso freddo. Un ricordo si fece spazio nella mia testa. Una volta, quando avevo cinque anni e non riuscivo neancora a controllare bene i miei poteri, le cose mi erano sfuggite un po' troppo di mano, e le cicatrici avevano iniziato a formarsi sulle mie braccia, facendomi urlare dal dolore. Lei era lì con me, mi aveva guardato piangere in preda all'agonia, aveva sorriso e si era voltata, lasciandomi da sola. Solo dopo una mezz'ora Hera mi aveva trovato e guarito. Quel sorriso che ora Ecate stava indossando era lo stesso sorriso freddo e distaccato che mi aveva rivolto allora. Un moto di rabbia mi inondò dentro e strinsi la spada più forte.
Cosa vuoi?
«Aiutarti ovviamente». Allargò le braccia e sospirò, come se fosse irritata dal fatto che non ci fossi arrivata.
Alzai la spada verso di lei, come se volessi difendermi dalle sue parole. Non ho bisogno del tuo aiuto, le ringhiai come un cane messo all'angolo.
«Ne hai più bisogno di quanto pensi» Fece qualche passo verso di me, attraversando letteralmente il falò e mettendosi a pochi passi da me. Indietreggiai, sentendo la parete fredda della cella sulla mia schiena. Ecate allungò il braccio e mi sfiorò il collo. La sensazione delle mani di Ercole che mi strozzavano mi fece accapponare la pelle e senza pensarci, mossi la spada, tagliando di netto il gomito a mia nonna. Fortunatamente la sua figura si rivelò fatta di Foschia e la lama si limitò ad attraversarla senza nessun danno.
La dea si corrucciò. «Aliissa, non fare la testarda.» mi rimproverò, come se avessi avuto di nuovo cinque anni.
Ma io non stavo facendo la testarda. Non era per orgoglio personale che stavo scaricando il suo aiuto. Il problema era che avevo paura. Non riuscivo a fidarmi di lei. Gli dei sapevano essere subdoli, io lo sapevo meglio di chiunque altro. E il ricordo vivido del suo sorriso gelido davanti a una bambina in lacrime non poteva che confermare la mia sfiducia.
Alla fine sembrò capire. I suoi occhi brillarono di comprensione.
«Quindi la tua è una questione di diffidenza.» Allungò nuovamente il braccio, e questa volta la lasciai fare, non sapendo cos'altro fare. Mi irrigidii non appena le sue dita sfiorarono il mio viso. Per essere fatta di Foschia il suo tocco sembrava parecchio reale. «Vedi bambina mia» disse «le cose cambiano, e anche le persone.» Sorrise più ampiamente e la sua mano si spostò sul mio collo. Iniziò a bruciare immediatamente e chiusi gli occhi pensando di essere spacciata mentre mi pareva di avere le fiamme del Flagetonte nella gola. Dopo qualche minuto insopportabile, iniziai a urlare dal dolore. Un urlo vero, a pieni polmoni. Il calore diminuì improvvisamente fino a svanire e crollai a terra. Mi toccai il collo, certa che fosse pieno di vesciche. Invece era intatto.
Alzai lo sguardo, e vidi attraverso il velo di lacrime che mi riempiva gli occhi, il sorriso di mia nonna.
«Cosa mi hai fatto?» le urlai.
Poi mi bloccai, esterrefatta. Mi toccai di nuovo la gola. «Come..» Sentii le mie corde vocali vibrare.
Spalancai gli occhi e tornai a guardare mia nonna cercando una spiegazione, mentre le lacrime calde iniziarono a scendere lungo le guance. Il suo sorriso si espanse e i suoi occhi scintillarono. Sembrava sinceramente contenta. Quello era un vero sorriso.
«Ti servirà per affrontare quello che ti aspetta fuori di qui.» lanciò un'occhiata nervosa alle sbarre poi riportò gli occhi scuri su di me. «Tu non sei un'arma come originariamente avevamo pensato tutti. Le cose sono cambiate, e anche tu. Hai aperto una nuova via che nessuno avrebbe mai pensato. Ora devi solo sceglierla.»
Dei rumori provenirono dal fondo del corridoio. Sembravano zoccoli di metallo oliati male.
«Devo andare. Ma ci rivedremo molto presto, non ti preoccupare.» mi fece l'occhiolino e in un secondo la sua figura si trasformò in Foschia e poi svanì.
«E chi si preoccupa» borbottai, ancora incredula di risentire la mia voce. Un mostro comparì davanti alle sbarre di ferro. La spada mi scivolò dalle mani, e prima che toccasse il terreno ritornò ad essere il mio ciondolo.
«Rose»
Fissai l'empusa che stava armeggiando con il lucchetto. Non c'erano dubbi, era mia cugina. O quella che aveva finto di essere mia cugina. Mi lanciò uno sguardo assassino sentendo il suo nome poi alla fine riuscì ad aprire la cella. Non sapevo bene come reagire. Sembrava infuriata.
«Rose mi stai aiutando a fuggire?»
Le sue mani scattarono e mi afferrarono i polsi, affondando le unghie nella pelle. Urlai e cercai di liberarmi ma la sua stretta era assurdamente forte.
«Mi chiamo Rosaline. Smettila di chiamarmi Rose. E di certo non aiuto una come te a fuggire dalle prigioni della mia signora.» iniziò a trascinarmi lungo il corridoio, e poi in cima ad una scalinata di pietra. Ero troppo sbigottita per rispondere. Quella non era mia cugina?
Attraversammo una decina di corridoi con tappeti scuri sui pavimenti e qualche candela accesa con del fuoco greco. Delle ombre strisciavano lungo le pareti e qualche volta incontravamo una guardia che faceva in su e giù lungo il suo perimetro. Solo che tutte erano degli scheletri armati e vestiti secondo epoche e battaglie diverse. Ebbi un brutto presentimento.
«Dove mi stai portando?» chiesi senza staccare gli occhi di dosso a uno scheletro vestito con il completo nazista.
Rosalie sbuffò irritata dalla mia domanda. Mi accigliai ma non dissi niente. Quella non era assolutamente mia cugina.
«Al cospetto della padrona.» disse infine.
«E chi sarebbe queste padrona?» domandai, anche se credevo già di sapere la risposta. Tutti gli elementi di quel castello - perché era senza dubbio un castello - portavano ad una sola persona. Una persona che aveva come moglie la dea che più mi detestava di tutto l'Olimpo.
«La padrona» disse Rosalie «è la regina dell'oltretomba ovviamente. Lady Persefone.»

***

Mia nonna aveva azzeccato con il suo concetto di molto presto.
Dopo esser passate per circa metà stanze del castello, davanti a noi si parò un'imponente portone in Ferro di Stige con impressi uomini morenti in guerra, per malattia e altre catastrofi troppo orribili anche da raccontare. A guardia vi erano due uomini della Rivoluzione Francese con in mano delle baionette. Li fissai mentre rivolgerono i loro sguardi vuoti su di noi e aprirono le porte con le loro mani ossute. Mi mossi a disagio. Erano troppo inquietanti.
Entrammo lentamente. Mi sentivo una condannata al patibolo nella sua ora. La sala era enorme. Il soffitto era alto più di cinque metri con dei lampadari neri appesi che illuminavano la stanza questa volta con del fuoco vero. Due giganteschi troni era posti da una parte della sala. Uno era fatto di ossa fuse e pietre preziose, l'altro era ricoperto di fiori. Accanto a quest'ultimo stavano delle empuse, tutte sull'attenti. Una di loro riconobbi era Cloe. Un moto di nostalgia mi colse ma cercai di sopprimerlo, non era il momento adatto per farsi prendere dalla tristezza.
Improvvisamente l'aria si ripiegò su se stessa e comparvero i due signori dell'aldila a grandezza divina, seduti sui loro troni, mentre in mezzo alle empuse comparì mia nonna, a grandezza di uomo. Quello poteva solo significare una cosa, lì dentro Ecate non aveva potere.
Guardai Ade. Aveva una lunga toga scura, dalla quale ogni tanto usciva qualche lamento di un'anima maledetta, e indossava la sua solita corona d'alloro sulla testa. Il suo sguardo era inespressivo, ma stava rigido sul suo trono, con le spalle contratte e le braccia tese, quasi fosse pronto ad attaccare. Fece un rapido gesto con la mano verso il portone opposto a quello che avevo attraversato io, e si aprì, facendo entrare due guardie scheletri, probabilmente romani, che affiancavano un ragazzo dall'aria truce.
«Nico!» iniziai a urlare con il petto che mi esplodeva di gioia nel rivederlo.
Il suo sguardo scattò verso di me, sorpreso. Iniziò a correre nella mia direzione ma Rosalie gli si parò davanti soffiandogli come un gatto randagio. Peccato che non si era accorta che aveva lasciato andare il mio braccio. La spinsi di lato facendola cadere a terra e mi buttai tra le braccia di Nico. Lo strinsi forte, come non avevo mai fatto prima , e sentii subito il suo profumo. Mi prese il viso tra le mani gelide e lo avvicinò al suo, fino a far sfiorare le nostre fronti. Lessi nei suoi occhi la preoccupazione e la paura, insieme alla felicità di essere di nuovo insieme. Ma sapevo che non sarebbe durata. La mia fine era lì. E quando la realtà mi colpì, quando capii di essere veramente arrivata al capolinea, non ce la feci più. Lo baciai, sopprimendo un singhiozzo. Mi passò le mani tra i capelli, mentre ricambiava. Un ultimo disperato bacio.
«Ti amo» gli sussurrai in modo che solo lui sentisse. Sorrise. Uno di quei sorrisi luminosi che faceva solo lui e che mi mandavano in palla il cervello e le farfalle nello stomaco. Ma quel nostro momento non durò di più. Rosalie mi afferrò il braccio e mi costrinse a indietreggiare, mentre gli scheletri che accompagnavano Nico, lo presero e lo portarono dall'altra parte della stanza.
«Lasciatemi!» urlò dimenandosi, ma loro non lo ascoltarono. Stavano prendendo ordini da qualcuno di più potente.
Nico lanciò uno sguardo assassino a suo padre che a sua volta ricambiò con un'occhiataccia che sembrava avvertirlo. Nico a quel punto si calmò e si voltò verso di me.
Dopo, mi disse nella mente.
Lo guardai confusa. Credeva davvero che sarebbe stato un dopo?
Spostai lo sguardo da lui a suo padre. Dal loro gioco di sguardi si poteva capire che avevano discusso di qualcosa prima della loro entrata. Mi fecero sperare che esistesse un piano per tirarmi fuori da quella situazione, ma sapevo che era impossibile. Se le Parche avevano deciso in quel modo non potevo cambiarlo.
Sei sicura che sia quello il tuo destino?
Guardai incuriosita Ecate che mi aveva appena parlato telepaticamente.
Cosa stai dicendo?
Gli occhi di Ecate scintillarono come avevano fatto prima, nella prigione.
Attenta a quale via scegli.
Persefone rise, attirando tutta la mia attenzione, e la sua risata si espanse in tutta la sala. Anche se fu l'unica. «Che quadretto fantastico!»
Si chinò sul suo trono e mi squadro con un'unica occhiata.  
«Ecco la semidea che mi ha dato tanti grattacapi. Pronta a morire, finalmente?»

La Figlia Dell' Olimpo - L'ultima Discendente [Percy Jackson]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora