3. Sulla tranquillità mi sbagliavo

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André


Una candela accesa. Una candela spenta. Una candela accesa. Una candela...

«Smettila.» Era la mia voce. No, non era la mia voce. Era un sussurro rauco, un mormorio reso graffiante e sottile dalle urla. Era un sibilo più animale, che umano. Perché era quello che ero. In fondo, non dicono che tutti gli uomini sono animali? Io lo ero. Un animale vicino alla soppressione, una piccola bestia sottomessa, gonfiata dalle carezze del suo padrone, schizzata del suo stesso sangue. «Ti prego.»

Passò il coltello sulla candela accesa. Premette la lama sulla fiammella, spense la candela. La riaccese. Mi posò una mano sulla gamba, una carezza appena accennata.

Sfiorò il mio braccio con il coltello, dove la vena violacea spuntava alla luce tiepida della candela. La lama affondò nella carne, come una forchetta che sprofonda in un morbido pezzo di torta. Il ripieno di crema scivolò via. Il sangue iniziò a fuoriuscire dal taglio senza fermarsi, il ticchettio delle gocce sul pavimento sudicio. Un carico color cremisi macchiò la brandina su ero stato gettato. 

«Lo sai che se svieni, mi arrabbierò.» Mi sforzai di guardare il soffitto, le volte alte e annerite dal buio della notte. Il mondo iniziò a sfocarsi e a roteare. Mi morsi l'interno della guancia, un sapore metallico mi riempì la bocca. La vista si fece appena più chiara. Presi un grosso respiro, mentre sentivo la ragione scivolarmi via.

Resta sveglio.

Mi scostò i capelli dal viso. Aveva un tocco leggero, dolce, buono. A volte mi sembrava di volergli bene, quando faceva così. Ma non gli volevo bene. Lo odiavo.

Resta sveglio. Resta sveglio. Resta sveglio.

Sentii la lama trapassarmi la carne, sbattere contro il ferro dei braccioli. L'arma rimase conficcata nel braccio.

«Bravo.» disse e sorrise. Mi strinse più forte i lacci intorno ai polsi e alle caviglie. «Ora viene la parte migliore.» prese un lungo coltellaccio. Era più grande, più affilato, sopra c'erano i residui del sangue secco e rappreso di qualcun altro. Lo stomaco ebbe una contrazione, la bile mi salì alla gola. Ingoiai. «Vedrai...» posò il coltello sul petto. «Non farà male.»


Gridai a squarcia gola.

Mentre avvertivo la gola ululare in segno di protesta al mio urlo, mi accorsi che quello era un sogno. Era solo un sogno. O meglio, un ricordo.

Mi tirai le coperte sulle spalle e poi fino alla testa, cercando di sprofondare nel letto che cigolava al suono dei miei movimenti. Passandomi le mani sul viso, mi stropicciai gli occhi sfregandomi la pelle nel tentativo di scacciare quelle immagini dalla testa. Perle di sudore mi rigavano la schiena lentamente, molto lentamente, come la disgustosa sensazione del sangue caldo che scende dalle ferite. 

Dopo, mi tolsi le lenzuola di dosso e saltai giù dal mio giaciglio di vecchi cuscini impolverati, col materasso che emetteva un cigolio fastidioso. Alzai il braccio sinistro e osservai, fra una serie di tagli e solchi rosati, uno in particolare: uno strato profondo di tessuto cicatriziale, la mezzaluna di un coltello arroventato.

Abbassai il braccio e camminai silenziosamente verso il bagno, le piante dei piedi che producevano un silenzioso scalpiccio contro la pietra gelida. Mi fermai davanti al vaso da notte in ceramica, immacolato, e rimasi lì a fissarlo come in trance. Poi mi chinai a terra, con le ginocchia nude che toccavano il pavimento, e afferrando il bordo vomitai, anche se non avevo nulla nello stomaco. Erano tutte reazioni normalissime, cose che capitavano quando, nelle notti peggiori, ricordavo.

Per arrivare a Lei | 𝑩𝒐𝒚𝒙𝑩𝒐𝒚 |Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora