È scientificamente provato che il parto supera la soglia del dolore che un essere un mano è in grado di sopportare. Dicono però che sia un dolore che passa, un dolore del quale te ne dimentichi l'esatto istante dopo la nascita del bambino, sparisce come se non ci fosse mai stato.
Mai avrei pensato però che io dovessi sopportare questo dolore a soli ventidue anni appena compiuti, con un fidanzato instabile e poco presente per cause maggiori. Eppure ero lì, con un camice verde addosso, ad urlare come una forsennata, a cercare un rimedio, una consolazione per quel dolore che faceva un male cane. Una volta soltanto in vita mia, fino ad allora, avevo provato un dolore tanto forte da farmi piangere ed urlare: a quindici anni mi ero rotta un braccio, cadendo malamente dalla bici e l'osso spezzato mi era praticamente uscito dalla pelle, costringendo i medici a rimetterlo al suo posto prima di ingessarlo. Ma quel dolore non era neanche minimamente paragonabile a quello che stavo provando in quel momento.
I suoni attorno a me erano confusi, ovattati, le infermiere ed il medico continuavano a dirmi di spingere e di stare calma, che se urlavo in quel modo, o mi agitavo tanto, peggioravo soltanto la situazione. Ma per loro era facile parlare, quella che effettivamente stava soffrendo ero soltanto io.
Mia madre mi stringeva una mano, cercando di infondermi un po' di sicurezza e di tranquillità, necessaria abbastanza da placare le mie ansie soltanto per qualche minuto, ma non sufficiente per permettermi di calmarmi effettivamente. Respiravo pesantemente e stingevo occhi e denti, cercando di seguire gli ordini che il medico mi dettava, ma non c'era nulla da fare.
Probabilmente il motivo di tutto quel mio smarrimento era il fatto che continuavo a pensare a Harry, a dove fosse e perché diavolo invece non potesse essere al mio fianco in quel momento. Nella mia testa continuavo a dirgli che era un bastardo, che io per lui quando soffriva come un dannato per le sue crisi d'astinenza c'ero sempre stata, mentre adesso che io avevo bisogno del suo supporto lui era bloccato in una maledetta casa di accoglienza per la sua cavolo di dipendenza dalla droga. Io stavo uscendo matta, cercando di partorire quel figlio, senza di lui. E non fraintendetemi, non ero arrabbiata, se qualcuno avesse ascoltato i miei pensieri anzi avrebbe riso perché era seriamente esilarante la brutalità con cui lo stavo prendendo per bastardo e figlio di puttana semplicemente perché stavo impazzendo dal dolore e per potermi calmare avevo almeno bisogno di sfogarmi contro qualcuno e lui era l'unico a non essere lì a sostenermi, quindi era palese che la mia lo mente pensasse.
"Scarlett, forza, devi spingere!" Il medico urlò ancora, perdendo forse anche lui un po' di pazienza.
Un urlo graffiato sfuggì ancora dalle mie labbra. Io la pazienza l'avevo persa del tutto e già da un pezzo. Imprecavo, urlavo, pregavo ogni santo perché mi aiutassero a sopravvivere e a sopportare quell'agonia, perché facessero in modo che tutto quello finisse in fretta.
Là fuori c'erano ad aspettarmi mio padre, Erick, con il quale avevo un po' recuperato i rapporti, Amanda, Liam e persino i genitori di Harry; se ne stavano tutti con il cuore in gola ad aspettare che mia madre uscisse e dicesse loro che finalmente quel bambino era nato; tra i tanti, soltanto quest'ultima poteva però realmente comprendere la mia momentanea sofferenza.
Nella mia mente borbottai ancora parole offensive contro di Harry, ascoltando distrattamente la voce di mia madre che mi diceva che andava tutto bene e cercando di fare del mio meglio per facilitare il tutto.
Eppure, mentre ero intenta a spingere ancora più forte e a chiedere aiuto invano, la porta della stanza in cui ci trovavamo si spalancò, rivelando un Harry con i capelli scompigliati sotto un cappello verde, come il camice che indossava e l'aspetto trasandato, gli occhi quasi fuori dalle orbite. Non notai comunque subito la sua presenza, troppo concentrata su di altro per potermi accorgere di lui, fin quando mia madre non disse ad alta voce il suo nome e lui invece richiamò il mio. Aprii di scatto gli occhi, rivolgendogli istantaneamente il mio sguardo.
"Harry!" Urlai tanto forte quanto avevo fatto fino a quel momento.
Corse in fretta da me, prendendo il posto di mia madre al mio fianco e stringendomi forte la mano. Mi era mancato, tanto da mozzarmi il fiato, e sentire la sua pelle contro la mia, le sue labbra che mi baciavano sulla fronte nonostante fosse inumidita dal sudore, era paragonabile alla luce del paradiso.
Allora non ci fu più altro da pensare, non era il momento e non era neanche necessario perché colui che per tutto il tempo attraverso la sola immagine nella mia mente mi aveva resa scombussolata, adesso mi stringeva la mano, era al mio fianco e mi diceva che io potevo farcela, che io ero forte e che soprattutto, io non ero sola.
Non importava neanche come potesse essere possibile che lui fosse lì e non chiuso in una stanza a combattere contro l'impetuosa voglia di scappare per potersi fare.
Importava soltanto che lui c'era, che lui ci sarebbe sempre stato.
"Harry, Harry!" Chiamai ansiosamente il suo nome.
Avevo bisogno di lui, di sentire la sua voce, di sentire la sua bocca premere sulla mia pelle.
"Calmati piccola, sono qui. Forza, ce la puoi fare." Disse a bassa voce, con le labbra premute sul mio orecchio.
Allora i miei occhi si riempirono di lacrime e sentivo che avrei potuto piangere da un momento all'altro, peggiorando soltanto quella situazione già abbastanza instabile. Ero convinta del fatto che se fino ad allora non avevo ancora pianto era perché nella mia mente non c'era posto per altre emozioni, se non il nervosismo per la sua momentanea assenza quando io ne avevo più bisogno. Ma dal momento che lui era lì, il dolore e la voglia di far nascere nostro figlio erano diventati il punto fisso nella mia testa, alterando in me ogni tipo di emozione.
"No, no, fa male, fa tanto male." Scossi il capo, mentre stringevo occhi e denti.
Spingevo, ci provavo, respiravo, ci provavo ancora, ma sembrava non funzionare.
"Cristo, amore, non piangere." Disse Harry, quando alcune lacrime scivolarono via dai miei occhi, "Se potessi prenderlo io tutto questo dolore, lo farei."
Mi sembrava tanto una delle frasi che avevo sempre detto e pensato io quando era lui a soffrire per tutto quello che aveva dovuto passare e che nonostante tutto, sapevo infondo, passasse ancora a volte.
Deglutii.
"Dai Scarlett, devi spingere ancora un altro po'! Riesco a vedere la testa!" Strillò il dottore.
Buttai la testa all'indietro, urlando e spingendo più che potevo, poi la riportai in avanti respirando più che potevo.
"Dai piccola, forza, forza, forza." Ripeté Harry al mio orecchio.
Sentivo il suo respiro caldo infrangersi sul mio viso, accaldandomi, ma non mi importava. Mi calmava, mi rendeva meno ansiosa e mi faceva sentire meglio averlo tanto vicino.
La paura c'era, il dolore e la sofferenza erano ancora presenti e vividi, ma Harry riusciva la stesso a sopprimere quantomeno la parte più soffocante di questi.
"Brava, così! Scarlett, continua così! Ci siamo quasi!"
"Harry!" Strillai, quando smise momentaneamente di parlarmi a bassa voce, imbambolato a guardare il dottore che lavorava per far nascere quel bimbo.
Si riscosse da quel momento e ritornò da me, abbassandosi per potermi mormorare ancora dolci rassicurazioni al mio orecchio.
"Piccola Scarlett." Mi chiamò.
Il respiro era mischiato ai singhiozzi e alle urla strozzate, perché faceva male, ma sentivo d'esserci quasi. Infatti, ogni mio tormento finì nel secondo in cui si udì all'interno di quella stanza il pianto isterico di un neonato.
Era vero quando dicono che il dolore del parto cessa nell'esatto momento in cui il bambino finalmente nasce, perché a me accadde questo. Il dolore si alleviò in fretta e potei tirare un sospiro di sollievo, concentrando la mia attenzione al pianto del mio bambino.
Sorrisi, guardando verso di Harry che seguiva con gli occhi, ansioso e tremante, le infermiere che con un panno avvolgevano il bambino e poi si rivolgevano a noi, sorridendoci.
"È un bel maschietto." Disse una di loro.
Spostai la mano dalla presa di Harry soltanto per poter prendere tra le braccia il mio bambino.
Le sue urla si placarono quando si ritrovò stretto dolcemente al mio petto, continuando però a mugolare. Io gli accarezzai il naso con la punta dell'indice, toccando poi le sue minuscole mani e riuscendo a stento a realizzare che quello fosse mio figlio.
"Il papà vuole tagliare il cordone ombelicale?"
Mi distrassi per guardare Harry, che annuiva nonostante dal suo sguardo intuivo non fosse molto convinto di farlo, eppure non si tirò indietro ed afferrò le forbici, ascoltando le indicazioni della infermiera e tagliando il cordone ombelicale.
Tornò a guardarci e mi sorrise, chinandosi per baciarmi sulle labbra, dopo mesi che non avevamo la possibilità di farlo.
Finalmente posso respirare.
Finalmente posso toccarti,
baciarti,
viverti.
"Ti amo." Sussurrò, prima di baciarmi ancora.
Il nostro contatto labbra contro labbra non durò però chissà quando. Tra le braccia stringevo un bambino che richiedeva le nostre attenzioni, ricominciando a piangere e ad agitarsi.
Sorrisi a più non posso mentre Harry si chinava per prenderlo e stringerlo un po' lui tra le braccia; mi lasciai andare sul letto, sospirando e sorridendo.
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Di Vetro [HS]
FanfictionTi guardo dormire e mi chiedo come hai fatto ad arrivare fino a questo punto; mi chiedo ancora com'è stato possibile spezzare il tuo cuore fino a portarti a tanto. Forse sei di vetro: appari così forte, ma ti distruggi al primo impatto. ___ Stato: c...