capitolo dieci

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Sto camminando ormai da due ore.

Sono le dieci di sera e, dopo aver ascoltato la conversazione dei miei genitori, sono uscita.

Non ne potevo più di quella casa, di quella vita che adesso sembra un castello di sabbia che viene spazzato via dalle onde del mare in un attimo.

Ecco come mi sento, privata del calore di una casa, non in senso materiale ma bensì affettivo, quella sicurezza che senti solo con le persone della famiglia, con la persona che ami, adesso mi sento esposta come se all'improvviso dovessi governare io una nave in un mare in tempesta.

Cos'altro può esserci di così grave?

Sono stata adottata e questo è ormai chiaro, ma c'è qualcos'altro dietro a quanto pare, tanto grave da aver paura della mia reazione. Non riesco ad immaginare niente.
Sono stremata. Sto camminando in un parco, ci sono delle coppiette che passeggiano mano nella mano, alcune comitive appartate che fumano erba, un barbone che dorme su una panchina e gli amanti del jogging notturno.

Mi avvicino al laghetto e decido di sedermi vicino la riva, stringo le gambe al petto e appoggio la testa sulle ginocchia. Vengo assalita dell'angoscia e dalla disperazione e scoppio in un pianto liberatorio, tutta la tensione di queste settimane che ho accumulato è venuta fuori.
Non so quanto tempo passo in questa posizione né cosa sta accadendo intorno a me, sono completamente assente.

-"Non dovresti girare da sola in un parco di notte!"- una voce maschile mi fa destare dai miei pensieri e il cuore mi batte forte dallo spavento.

-"Mi hai fatto prendere un colpo"- dico mettendo una mano sul petto per tentare di calmarmi.

Mi giro e lo guardo, un ragazzo, capelli lunghi legati in un codino, gli occhi illuminati da un lampione sono verdi, è vestito sportivo quindi forse era qui per correre.

-"Hai finito i raggi x o faccio un giro su me stesso?"- mi sorride sghembo e mi giro di scatto, sono sicuramente diventata rossa meno male che è buio!

-"Allora cosa ci fai qui tutta sola?"- mi chiede.

-"È stata una giornata pesante. Tu vieni qui spesso?"- rispondo.

-"Quando ho voglia di rilassarmi e staccare da tutto vengo qui a correre, mi aiuta a scaricare la tensione"- mi risponde sedendosi accanto a me.

-"Io sono Daniel"- mi tende la mano.

-"Juliana, Julie per gli amici"- gli stringo la mano.

-"Ti va se ci prendiamo qualcosa di caldo? Avrai preso parecchio freddo, stai tremando"- mi chiede Daniel.

-"Si, perché no"- rispondo e ci dirigiamo verso l'uscita del parco.

Siamo seduti in un bar e io ho preso un tè mentre Daniel un caffè.

-"Allora Julie, dimmi un po', cosa ti ha portato a vagabondare per la città?"- mi chiede Daniel e io sospiro non sapendo cosa rispondere.

-"Perché ti interessano i miei problemi?"- gli chiedo.

-"Non sono un ficcanaso, se è questo che pensi, solo che in certi momenti avere una persona che ti tende una mano aiuta a non cadere nello sconforto"- mi risponde.

-"Io non ho famiglia qui, sono tutti in Inghilterra. I miei si erano separati e io ho seguito mio padre qui a New York cinque anni fa ma due anni fa lui è morto a causa di un infarto e sono rimasto solo"- mi racconta lui.

-"Perché non sei tornato in Inghilterra?"- gli chiedo io.

-"Mia madre si è risposata e nonostante io non abbia mai avuto niente in contrario, non riuscirei a vivere nella casa dove sono cresciuto felice con mia madre, mio padre e mia sorella con ormai una nuova famiglia cioè voglio conservare i miei ricordi, non so se mi sono fatto capire"- mi dice Daniel.

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