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Il dolore alla testa era martellante nonostante l'utilizzo delle medicine, l'aria fresca di Londra certo non migliorava la situazione, anzi, la peggiorava gravemente. Avevo sempre amato il tempo cupo di questa città, la pioggia, la nebbia, il grigio delle nuvole, un po' di tempo fa quando mi guardavo intorno, quando guardavo il posto in cui vivevo io mi sentivo a casa. Ora avevo una sensazione di inquietudine, di vuoto che avevo già assaggiato quando ero solo un adolescente, con la morte dei miei genitori. Avevo creduto per fin troppo tempo di sentirmi bene, in pace con me stesso, di aver superato la prova più dura che la vita potesse porre sulla strada di un ragazzino alle prese con una sorella che non era neanche ancora cosciente di tutto ciò che accadeva intono a lei causa la sua tenera età.

Il fatto è che non si supera mai niente. Si resta sempre fermi al punto di partenza. Ed io mi sentivo fermo. E se mi giravo indietro, potevo vedere solo merda e sensi di colpa.

Colpa per non essere mai stato presente per mia sorella Gemma, averla semplicemente rinchiusa in un collegio a Parigi, credendo e illudendomi che lì, forse, sarebbe potuta diventare tutto ciò che voleva, perché aveva le capacità per farlo e anche perché mi costava tanti fottuti soldi. Lei non doveva essere come me, doveva avere un'ottima istruzione, magari un giorno diventerà una dirigente o un dottore e poi si formerà una famiglia e lei non sarà come me, no, lei sarà capace di tenersi stretto chi ama, e sarà mamma di bambini felici. Perché lei non è come me. Lei sa amare. Eppure io dalle email che mandava non vedevo la Gemma che volevo che fosse, ma leggevo solo tanta amarezza di essere rinchiusa in un posto a miglia da suo fratello. Ma lei non capiva. Non capiva che io distruggevo ciò che amavo.

E io la amavo e l'ho distrutta.

Sono come un tornado, un vortice, tutto quello che tocco lo spazzo via, lo distruggo. Ed è per questo che a volte penso che l'unico male di me stesso sono io. Trovo stupido attribuire ad un'entità divina i nostri errori, le nostre gioie, no cazzo, non è così. Siamo noi che decidiamo di sbagliare, siamo coscienti di ciò che facciamo. Siamo noi che disegniamo il nostro percorso, noi e soltanto noi. E poi come dei cazzoni, per sentirci meno coglioni diciamo che doveva andare così, che il destino non si può cambiare e lo diciamo perché siamo dei coglioni al quadrato, perché non siamo nemmeno capaci di ammettere i nostri errori, le nostre scelte sbagliate.

Ed io in questo periodo di scelte sbagliate ne ho prese così tante che mi ritrovo affossato in un buco così profondo che nessuno sente le mie grida disperate di aiuto.

Questa città era sempre uguale, stessi posti, stessa gente, stessi problemi e stessa monotonia. di certo non aiutava al mio stato. Quando arrivai al Twince, il club dove ormai si potrebbe dire che era diventato la mia seconda casa, la prima cosa che feci fu ordinare un Bourbon, quando finalmente il liquido marroncino mi pizzicò la gola, mi girai verso la folla di ragazzini arrapati che si muoveva a ritmo di musica disco.

<<Amico me ne dai due?>>  voce troppo squillante, a giudicare dal suo viso non aveva neanche diciotto anni, ma del resto che me ne fregava. Gli passai la bustina trasparente mentre lui mi diede quello che mi doveva. Manco il tempo di voltarmi che una ragazza dai capelli fin troppo colorati mi si avvicinò.

<< A quanto? >> mi chiese.

<< Trenta al pezzo >> .

Quando finii tutto ciò che dovevo vendere, mi presi al bancone l'ennesimo Bourbon.

<<Non starai esagerando questa sera?>>

<<Ti interessa qualcosa?>> presi il bicchiere con il liquido ambrato di cui avevo bisogno al momento.

<<Mi interessa non dover raccogliere gente ubriaca dopo l'orario di chiusura>>.

<<Ah davvero? Io credevo che ti piacesse accompagnarmi nella mia stanza, a letto – alzai un sopracciglio e alzai un angolo della mia bocca in qualcosa che avrebbe dovuto essere un mezzo sorriso – e poi infilartici dentro>>

La principessa Sherazade||H.SDove le storie prendono vita. Scoprilo ora