Capiotolo 2

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Pov Milik



Sono nato a Roma, agli inizi del Medioevo. Ero di umili origini. Sono stato testimone del feudalesimo e delle ingiustizie contro quelli che non possedevano nulla.


Mio padre non amava mia madre. Dopo averla messa incinta violentandola, lui sparì dalla circolazione, tornando solo anni dopo, con molto più denaro di quanto ne avesse mai avuto in vita sua, negando tutto ciò che era successo e tutto quello che aveva fatto a mia madre; mi indicò come figlio di una sgualdrina che tentava di incastrarlo dopo che aveva scoperto della sua fortuna, ottenuta in qualche modo discutibile.


Il mondo va sempre avanti allo stesso modo. I bastardi si trovano in ogni luogo e in ogni epoca.


Ma a quell'epoca il bastardo ero io e la vita non faceva che ricordarmelo.


Mia madre mi ha sempre odiato. Ero solo frutto di una violenza, dello stupro che le aveva rovinato la vita, dandole solo una bocca in più da sfamare e frecciatine pungenti quando passava per le strade. Spesso, da bambino, mi lasciava senza mangiare per giorni. Oramai non sentivo nemmeno più la fame. Solo un'anziana signora muta e sorda, che ho sempre creduto essere mia nonna mi accudiva.


Fui un bambino silenzioso. Rare volte mi lasciavo andare alla mia naturale indole vivace. La dura vita mi aveva forgiato le ossa già a quell'età. Iniziai molto presto a lavorare ma non era poi così strano a quei tempi.


Crescendo iniziai a fare ogni tipo di lavoro, solo per cercare di portare denaro a mia madre, per cercare di redimermi dalla colpa di essere nato.


Devo assolutamente raccontarti di Clelia.


Sono impaziente di farlo.


Clelia è stata il mio amore mortale.


Era una ragazza povera, ma sola, quindi in un modo o nell'altro riusciva sempre a mettere insieme un po' di cibo per tirare avanti.


La incontrai un giorno d'estate, usciva dalla chiesa in cui io non entravo mai e una folata di vento portò via il nastro che le ornava i capelli. Destino volle che fossi io a raccoglierlo, mi corse incontro.


«Scusate, quello è mio,» le porsi la fettuccia cremisi, «grazie!»


Sorrise. Sorrisi a mia volta.


«Legatelo meglio. Vi dona, sarebbe un peccato se lo perdeste.»



Erano mie quelle parole? Ero stato io a parlare?


Da dove veniva tanta sfacciataggine?

Lei distolse lo sguardo sorridendo imbarazzata.


«Cioè... volevo dire... oh, perdonatemi,» dissi passandomi una mano fra i capelli, mordendomi le labbra, nervoso. Nervosissimo. Non era da me.


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