Pov Milik
Ecco perché il suo potere non aveva avuto effetto. La sua mente era chiusa a lui come un bocciolo alla notte. I capelli e gli occhi scuri, la bocca carnosa, i lineamenti di un'eterna giovane donna, una cicatrice obliqua che tagliava a metà il suo volto...
Mar'ja Sokolova.
Figlia di un bolscevico, diciotto anni appena compiuti, lei non capiva i complicati meccanismi della crudele politica del periodo storico in cui viveva. Gli avvenimenti della Grande Guerra la toccavano solo marginalmente, come molte altre ragazze della sua età, ma conosceva bene la fame e le rinunce che in quel periodo pativa il suo Paese; i rifornimenti e le materie prime scarseggiavano e serpeggiava il malcontento tra il popolo.
Il 1917 fu un anno di svolta per la Russia, che concluse il suo impegno nella prima guerra mondiale e subì le profonde conseguenze di due rivoluzioni, quella di febbraio -secondo il calendario giuliano- e quella di ottobre, la decisiva.
Un menscevico aggressivo, per un atto di sfregio verso suo padre rapì Mar'ja, rinchiudendola nei sotterranei della sua casa. Lì la giovane subì tutti i tipi di violenza che un uomo può usare su una fanciulla di cui può disporre come vuole.
Mar'ja conobbe la tortura, lo stupro, l'umiliazione, tutte le ripercussioni di una lotta che non le apparteneva. Divenuta una bambola oggetto di sevizie, la sua mente non gridava aiuto, ma implorava la morte che non riusciva a darsi. Non voleva negarsi l'aldilà, anche se era certa di meritare solo l'inferno.
Mi trovavo in quella che ancora veniva chiamata Pietrogrado. Viaggiavo con piacere, amando esplorare nuovi posti quanto tornare in quelli che entravano nel mio cuore. Vedevo per la prima volta quella città e sapevo del clima ostile che vi aleggiava. Dopotutto non era diverso da Roma; la guerra aveva posato i suoi gelidi artigli ovunque. L'atmosfera russa mi piaceva: gelida e dannatamente romantica; avevo avuto persino la fortuna di trovarvi la neve.
Fu allora, in quell'ottobre del 1917 che io sentii la sua disperazione. Essa si stagliava sopra il vociare dei pensieri della città.
Per quale strano motivo avevo notato una giovane che non aveva nulla di speciale, in quel mare di angoscia? Non era la sola sventurata, e allora perché?
Non riusciva a capirmi e forse nemmeno voleva. Ero un dispensatore di morte ma desideravo aiutare quell'anima. Non potevo lasciarla morire. Era innocente, fragile, e nessun altro l'avrebbe aiutata.
Seguendo il calore della sua disperazione la raggiunsi con facilità, entrando in quella casa mentre il suo aguzzino dormiva.
La stanza-prigione in cui era rinchiusa puzzava di chiuso e di urina, e se non fosse stato per i miei occhi da vampiro non avrei potuto muovermi in quel buio. Mi avvicinai ad una finestra che era stata crudelmente murata e con una piccola spinta la frantumai, facendo in modo che la luce della luna illuminasse l'ambiente. Abbassai lo sguardo a terra. Sapevo esattamente dov'era la ragazza pur avendola semplicemente percepita e non individuata con gli occhi. Lei giaceva riversa sul pavimento di legno, con il corpo torto in una posa innaturale, con il petto in sotto e i fianchi rivolti verso l'alto.