Pov Edoardo
Tornai alla casa di Milik quando il sole doveva ancora tramontare e la Città Eterna era immersa in una malinconica atmosfera tinta di rosso e arancione. Il cielo prometteva un incantevole tramonto romano.
Entrato in casa, chiusi tutto per bene, mi tolsi le scarpe e come mosso da una strana forza mi diressi nella camera del vampiro e mi lasciai cadere esausto sull'enorme letto con un sospiro.
La mia mente era in bilico sul filo della distruzione. Quanto può sopportare un ragazzo? Non credevo di poter continuare così ancora a lungo. Desideravo fermamente di non esistere...
Tenevo le braccia abbandonate sul cuscino, sopra la testa, lo sguardo corrucciato, pensieri oscuri che mi vorticavano nella testa, confuso, disperato. Scossi il capo, non riuscivo a smettere di rimuginare sul casino che era diventata la mia vita, godendomi l'assoluto silenzio, e in
quell'effimero momento mi sentivo davvero fuori dal mondo.
Delle note lontane ma perfettamente udibili mi spinsero ad aprire gli occhi.
Qualcuno stava suonando un pianoforte e con un talento straordinario.
Quali mani riuscivano a creare tali melodie, suscitare tali sensazioni solo sfiorando i tasti d'avorio di uno strumento?
Mi misi a sedere e mi concentrai su quella musica soave, incantato.
Chi era quel pifferaio magico che mi stava facendo alzare e che mi stava trascinando verso di sé?
A passi lenti ma stabili oltrepassai i corridoi fino a che non trovai la porta giusta. La scia di quelle magiche note m'avevano guidato. Avevo paura ad aprire l'uscio, esitai un istante ma non potei fare nulla contro la volontà di entrare nella stanza, di avvicinarmi di più a quella fonte di vita ed emozione, a colui che riusciva a far vibrare uno strumento e a farlo parlare e cantare come se egli fosse una divinità che non ha altro modo per poterlo fare perché non ha voce.
Quella musica sembrava raccontarmi storie ormai seppellite dal tempo, nascoste nei miei tortuosi meandri, corteggiarmi e consolarmi, così appassionatamente, così dolcemente, che sembrava pretendere le mie lacrime.
La stanza era più piccola del salone principale, ma era illuminata dagli ultimi raggi del sole morente e la notte ormai era arrivata a far da dolce padrona nel mondo, salutando con eleganza gli ultimi sprazzi di tramonto.
All'altro lato della sala c'era un uomo seduto al piano. Le spalle tese, il corpo curvato in avanti, la testa che dondolava lentamente avanti e indietro, le braccia che si muovevano sicure su quei bianchi, piccoli denti che sapevano emettere suoni superbi.
Sembrava che Milik stesse comunicando in un'altra lingua, una lingua che si può parlare solo attraverso un pianoforte. Sembrava raccontare la propria esistenza, i propri dolori, le proprie gioie e speranze perdute, sembrava narrare fiabe dimenticate e poesie appassionate, struggenti canzoni d'amore e di odio, tristezza e dolcezza unite insieme per toccare l'animo umano e far vibrare le sue delicate corde.