Capitolo 8 : Vuota

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Al mio risveglio, mi ritrovai in un lettino dell'ospedale, con qualche fascia qua e là sul corpo

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Al mio risveglio, mi ritrovai in un lettino dell'ospedale, con qualche fascia qua e là sul corpo. Stropicciai gli occhi e mettendo a fuoco la vista, scorsi una figura accanto al mio letto.

Mi venne un colpo quando riconobbi la figura di Akio.

Oh, ora ti spaventi delle persone Tsukiko pensai.

Prima che potessi proferire una parola, lui mi precedette, agitandosi sul posto e sporgendosi verso di me.

«Oh Tsukiko, stai bene? Finalmente ti sei svegliata...» mi disse con il tono più dolce che potessi mai aver udito da quella bocca. Guardai riluttante la mano, dopo essermi accorta che sopra di essa c'era quella di Akio.

«N-Non toccarmi...» dissi con voce sorprendentemente scossa, scostando appena la mano. 

«Oh, sì, sì. Scusami... Stai bene?» mi chiese guardandomi, staccandosi come avevo richiesto. 

«C-che ti importa...» dissi per poi schiarirmi la voce riprendendomi, girando appena il capo per non doverlo guardare. Aveva degli occhi sorprendentemente grandi e luminosi nonostante il color nocciolo dei suoi occhi e i suoi capelli mori e corti, erano arruffati a sottolineare che fosse rimasto su quella sedia accanto al mio letto per molto tempo. 

«Che mi importa? Ti ho trascinato io fuori da quello sgabuzzino... Stavi perdendo un sacco di sangue, temevo che tu... Ecco, che tu...» si portò le mani sulla fronte e assunse una espressione affranta.

«Che morissi? Ah, non ne sarei tanto sorpresa. Forse non sono scappata né mi sono difesa perché mi sono arresa a tutti quelli come te» gli dissi, buttandogli uno sguardo pieno d'odio. «Ti ringrazio che tu mi abbia tirato fuori da lì, ma ciò non toglie che lo stesso male che loro mi hanno fatto fisicamente, me lo abbia fatto anche tu con i tuoi modi di fare, la cattiveria nei tuoi gesti e nelle tue parole ricolme d'odio» continuai.

«Tsukiko io...Ecco...» alzò lo sguardo e incontrò il mio, che disgustato, si specchiava nel suo dispiaciuto. Cercò di spiegare qualcosa, ma ogni volta che lo faceva, tentennava. 

«Ora che sto meglio, puoi andare. Grazie per aver fatto quello che hai fatto» dissi per facilitargli le cose, distogliendo di nuovo lo sguardo. 

Rimase a guardarmi in silenzio e immaginandosi che non avrei proferito più parola, si alzò dalla sedia e se ne andò dalla stanza. Mi dispiaceva per come lo avevo trattato, ma ero ancora scossa e il mio odio verso la scuola non aveva fatto che aumentare, anche se insieme alla rabbia, avevo ora anche della paura per quello che mi era successo. Nonostante credevo di essere abituata alla cattiveria, non credevo che sarebbe arrivata a tanto. Avevo fatto male a fidarmi, era stata colpa mia in primis, pensai allora. 

Dopo qualche giorno passato, alle mie lamentele decisero di rimettermi dall'ospedale, spiegandomi che avevo qualche costola rotta e che, per poco non potevo rimanere paralizzata per la botta presa alla schiena. Preferivo poter stare a casa a guarire, insieme alla compagnia dei miei genitori, con magari anche i libri di scuola per non rimanere indietro, piuttosto che rimanere in quattro mura asettiche. 

I miei genitori vennero a prendermi e mi guardarono preoccupati, ma non dissero una parola dal primo momento in cui entrarono in quella camera d'ospedale. Forse erano anche loro sconfitti, forse, si sentivano impotenti.

Più volte i miei genitori vollero farmi cambiare scuola, città, amicizie... Ma a causa del loro lavoro, non poterono permetterselo. Per questo, quando raccontai a mia madre di volermene andare a Tokyo un giorno, non diede segno di contraddizione e mio padre, fece lo stesso.

Quasi misi piede in camera, mi sedetti sul bordo del letto, contemplando la mia cameretta, l'unico posto in cui effettivamente mi sentivo al sicuro.

Mi spogliai dai miei indumenti puliti che mi diede mia madre per non rimettere quelli del giorno dell'accaduto e osservai il mio corpo. Avevo lividi sulla maggior parte del corpo, ma evidenti erano quelli sulla schiena e quelli sull'addome, che macchiavano di nero il mio corpo pallido. Osservai il mio viso e i miei occhi azzurri, evidenziavano maggiormente il gonfiore che avevo. Restai ad osservare le mie ferite da guerra fino a quanto, poco dopo, bussò qualcuno.

"Tsu, sono io» disse mia madre dietro la porta.

"Entra pure mamma» risposi, ancora indossando l'intimo a fatica per il dolore. Di lei, non mi sarei mai vergognata del mio aspetto.

Quando entrò e mi vide in intimo davanti allo specchio, le vennero gli occhi lucidi e venne ad abbracciarmi, cercando di non stringermi troppo. 

«Tsukiko... la mia Tsukiko... Come hanno potuto fare questo alla mia bimba?» disse iniziando a singhiozzare.

Io ricambiai l'abbraccio, ma ero piuttosto impassibile. Quella esperienza mi aveva radicalmente cambiata e se prima, ignoravo quello che mi capitava intorno e soffrivo in silenzio, in quel momento ero vuota e basta. Completamente. Forse ero rimasta davvero traumatizzata e il mio meccanismo di difesa, era non provare alcun sentimento. 

Cercai di consolare mia madre, sentendomi un po' inutile per il mio stato d'animo.

«Tsu, che vuoi fare? Non possiamo andare avanti cosi. Dovremmo denunciar-»

«No mamma, non se ne parla. Manca poco alla fine della scuola, se li denunciassi, se anche solo provassi a muovere un dito, questa volta mi farebbero secca» dissi seria, con tono privo di emozioni. Non mi accorsi nemmeno della pesantezza di quelle parole. «E' il mio ultimo anno. Devo solo resistere ancora ...Un po'» continua, cercando di rassicurarla in qualche modo. Mi dispiace che fosse così preoccupata per me. Non doveva essere facile per una madre vedere la figlia ridotta in quello stato. 

Lei mi guardò e annuì. Sapeva anche lei che avevo ragione e che non si poteva fare molto, così si apprestò ad uscire dalla stanza, ma sull'uscio della porta si girò e mi guardò.

«Oh Tsukiko...Sei così forte»

Ghost;18 | BTS [In revisione...]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora