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Ljena


Sono quasi a casa. La gioia mi pervade, è da tantissimo che non vedo la mia famiglia! Finalmente la scuola ci ha dato un mese libero per tornare a casa, dopotutto è da un sacco che sento i miei soltanto attraverso lettere. E i miei fratelli poi… Krussan e Alfa mi mancano tantissimo, per non parlare poi della piccolina, Alina! È da troppo tempo che non la vedo. Secondo me diventerà una maga dell’acqua. Come la mamma, del resto. Sebbene non venga qua in città da un secolo riconosco tutte le strade anche ad occhi chiusi, non è proprio cambiato niente. Ecco lì le Torri Verdi, che svettano come al solito all’orizzonte. Questo che sento è il profumo delle ciambelle del fornaio all’angolo, Santski che vola sopra di me ride al ricordo: una volta quando avevo sette anni ne avevamo rubate due mentre lui era distratto, e come ci aveva inseguito per quasi tutto il quartiere quando ci aveva beccato… ma in fondo era buono, sebbene avesse quell’aria da vecchietto acido. Ecco la vetrina colorata del negozio di fiori, mi è sempre piaciuto questo negozio. E ad appena due isolati da qui… aspetta. Santski gracchia allarmato, ha le stesse sensazioni che ho io. Siamo alla periferia della città ormai, e non è mai stata tanto silenziosa. E c’è questo odore nell’aria, come di fumo… inizio a correre con un presentimento per nulla buono nel cuore, Santski che mi segue a ruota, i miei piedi che percorrono senza esitazione le strade. Arrivo fino a casa mia, e i miei sospetti peggiori prendono forma: un muro di persone è schierato in mezzo alla piazza. E l’odore di bruciato è più forte. Mi faccio largo a gomitate in mezzo alla folla, all’inizio la gente non mi riconosce o forse non mi presta attenzione, poi la folla inizia a parlare, tutta assieme, un brusio fastidioso di cui percepisco solo alcuni brandelli: “Non deve vedere!” “Non fatela passare!” “Lei no! Fermatela!” ma io sono insensibile a tutto, mi faccio largo a gomitate, raggiungo il limitare del cerchio formato dalle persone: la mia casa è in fiamme. Il fuoco si alza in volute pigre verso il cielo, mentre consuma lentamente le pareti di casa mia. Sento una mano afferrarmi un gomito, mi giro: è il fornaio. “Vattene via, Ljena. Non c’è niente che tu possa fare. Puoi stare da me per qualche tempo.” Mi libero della sua stretta con un gesto brusco, un mezzo gemito mi esce dalle labbra, è tutto ciò che è rimasto della mia voce. Non è possibile, deve esserci qualcosa che posso fare. Deve esserci. Mi libero dalle mani esitanti che cercano di trascinarmi indietro, corro fino alla costruzione in fiamme incurante del calore. La porta è crollata. Corro dentro, non sento neanche le voci di chi mi dice di fermarmi. Il caldo è insopportabile. “Mamma! Papà!” urlo con quanto fiato ho in gola. “Krussan! Alina!” corro per le stanze non ancora crollate o invase dalle fiamme ripetendo sempre gli stessi quattro nomi, senza ottenere risposta. Inciampo in qualcosa, ho paura sia un corpo ma è solo una sedia rovesciata. L’orlo dei miei pantaloni prende fuoco, cerco di soffocare quel principio di incendio con le mani, ce la faccio. Santski si trasforma in un umano, non ce la fa a volare. Inizio a piangere, le mie lacrime evaporano. Fino a quando non sento un debole sussurro provenire dalla stanza vicina alla mia. Corro fuori nel corridoio ed entro nella stanza dalla quale mi sembra provengano i suoni. Con un po’ di fatica riesco ad entrare: mio padre è steso a terra, il suo doppio con lui, sotto una trave infuocata. Sta prendendo fuoco anche lui. Corro vicino a lui, mi inginocchio, ma lui mi scaccia: “Va’ dalla mamma” biascica. E allora la vedo: semisvenuta, col vestito lentamente consumato dalle fiamme. “Mamma!” provo a gridare, ma dalle labbra esce fuori solo un roco sussurro. Lei apre lentamente un occhio: le sue ciglia hanno preso fuoco. “Krussan… Alina…” sussurra, senza riuscire neanche a parlare. Li vedo: sono sdraiati a terra anche loro, Alina sembra morta e prego non sia così, Alfa sembra svenuto, Krussan ha le gambe intrappolate sotto un cumulo di detriti. Respira a fatica, sembra quello più vivo di tutti. “Aiutaci!” esala con tutto ciò che gli è rimasto della voce. Cerco di farmi venire un’idea ma è inutile: il mio potere è l’aria, non l’acqua. Rischierei soltanto di peggiorare le cose. Come se uscissi da un sogno sento Santski gridare: “Ljena! Andiamocene da qui, crolla tutto!” non rispondo ai suoi richiami. “Andiamocene! Qualche mago dell’acqua saprà fare meglio di noi!” mi riscuoto dai miei pensieri e lo seguo all’altro capo della stanza: ha ragione. Ma una trave in quel momento crolla bloccando l’uscita: siamo intrappolati dentro. Moriremo. Sento il panico crescere, mi guardo intorno cercando una via di fuga ma non ne trovo. Moriremo qui. Mentre il panico scivola via come sangue da una ferita rimpiazzato dalla rassegnazione, penso: meglio qui che altrove. Qui, con la mia famiglia. E con Santski. L’unico pensiero che mi rende triste è Morglock… non lo rivedrò più. Morglock… quel nome fa scattare come una lampadina nel mio cervello, ma ho la mente annebbiata dal fumo e non capisco più niente. Mi sembra di essere arrabbiata con lui ma non capisco perché… cosa ha fatto di male? Cerco di ricordare, e non so perché ma mi sembra importante. Sento un dolore fortissimo alle braccia, come di scottatura, o ai polmoni, come se stessi soffocando. Sto morendo? Ma perché mi fanno male le braccia e non altri punti del corpo? Le guardo: sono assolutamente normali. Nessuna scintilla caduta sopra, niente. E allora perché questo dolore… poi improvvisamente capisco: sono ricordi. Ricordi di torture fatte da… Morglock.  Certo. Ora ricordo. Quello che non rimembro è come mi ha liberato? Come sono venuta qui se ero prigioniera? Mi ha davvero liberato? Guardo Santski in cerca di conferme, ma sta sbiadendo. Sbiadendo? Tutto sta sbiadendo intorno a me. I rumori. Le persone. Gli odori. Tutto. Fino a quando non mi ritrovo accerchiata da un bianco accecante, e poi mi ritrovo dove sono veramente: in cella. Ho in bocca il sapore acre del fumo, sento il desiderio impellente di vomitare, cerco di girarmi in qualche modo ma sono legata. A momenti non mi soffoco con il mio stesso vomito, tossisco, sputacchio fino a quando non ritrovo un po’ di respiro. Mi lacrimano gli occhi ma non so se sia per il fumo, il mezzo soffocamento o l’emozione. È stato terribile. All’improvviso risuona una voce: “Ti arrendi?” “Mai.” Rispondo.
Sento i chiavistelli scattare e la porta si apre: avrei voluto che mi avessero lasciato un po’ più di tempo dopo l’inquietante visione. Entrano due guardie semplicemente enormi, che non ho mai visto. Mi slegano e mi immobilizzano subito in mezzo a loro, mi esortano a camminare con loro ma è da troppo tempo che sono legata e le gambe non mi reggono. Cado, i due mi sorreggono e mi rialzano in malo modo, trascinandomi con loro. Vengo scortata per un bel po’ di tempo attraverso corridoi e sale, e ogni secondo la mia ansia si fa più grande. Finalmente arriviamo: è una piccola stanzetta, squallida e buia. Non appena mi fanno entrare vengo assalita da quattro paia di mani che mi trascinano dentro, mi bendano, mi fanno fare dei giri su me stessa, mi legano e mi scortano verso una destinazione ignota. All’improvviso una mano mi da un grosso spintone e io cado nel vuoto. Attendo con paura crescente l’urto, ma non arriva. Sento solo un grandissimo strattone e poi rimango lì a penzolare nel vuoto. Come per magia sento la benda cadermi dagli occhi: soffoco un urlo. Mi aggrappo con tutte e due le mani alla fune che mi sorregge. Cerco di non guardare giù ma è impossibile. Sono sospesa su un fiume di lava, e la corda che mi impedisce di cadere sembra così esile! Serro gli occhi. Il panico mi serra la gola. Sento uno sbuffo d’aria sfiorarmi la faccia, facendomi ondeggiare. Urlo. Una risata risponde alla mia paura: la risata di Morglock. “Ti fa paura? Fa paura avere solo un’esile funicella a separarti dalla morte?” apro gli occhi, lo cerco con lo sguardo: eccolo lì, al sicuro, su uno spunzone di roccia sopra di me. Lì dove è legata la corda. Con un vasetto in mano. Chissà perché questo non mi rassicura per niente. “Voglio darti una possibilità, Ljena. E forse se saprai cogliere l’opportunità potrò tirarti su. Che ne dici?” lo guardo con tutto l’odio possibile. “Allora” continua lui divertito. “Ti arrendi a me?” “Mai” rispondo. “Che peccato…” risponde lui con aria dispiaciuta. E fa cadere dal vasetto che ha in mano una goccia, giusto sulla fune. La fune sfrigola e si corrode. Acido. Per quanto reggerà? “Ti arrendi?” “Mai.” Altra goccia, precipito di qualche altro centimetro. “Ti arrendi?” “Mai.” Ancora una goccia, ancora qualche centimetro. È così che devo morire? Aggrappata ad una corda che fra poco si spezzerà? Non posso sopportare l’idea, e intanto cade un’altra goccia. Preferisco porre fine io alla mia stessa vita. Precipitare di mia volontà. E all’improvviso un’idea folle prende idea nella mia testa. “Ti arrendi?” chiede un’ultima volta Morglock. “Mai!” grido, poi do uno strattone alla corda che mi tiene legata solo per qualche piccolo filamento, e quella cede. Mi ritrovo in caduta libera. Precipito per qualche metro, col vento che mi fischia nelle orecchie, poi mi trasformo in un corvo. Come ho fatto a non pensarci prima? Prendo quota, mentre Morglock urla un “No!” pieno di frustrazione e rabbia. Volo sopra di lui, avvicinandomi all’uscita, e penso quasi di avercela fatta. Poi un soldato strappa di mano il vasetto a Morglock, e lancia ciò che resta dell’acido verso di me. Non sono abbastanza pronta per schivarlo. Alcune gocce mi colpiscono sull’ala. Mi sembra che la carne mi stia andando a fuoco, precipito, perdo quota, sono in caduta libera verso quel fiume di lava… un nuovo “No!” urlato più forte di prima risuona tutt’intorno a me mentre attendo impotente l’urto con il fuoco liquido… che non avviene. Mi ritrovo di nuovo in cella, legata come prima. Il braccio mi fa molto male, ma non ho nessun segno. Un’altra visione? “Ti arrendi?” la solita voce. “Mai.” La solita risposta.
Mi addormento, cado in un sonno agitato pieno di incubi. Mi sveglio spesso madida di sudore, poi ricado nel mio sonno. Ad un certo punto mi sveglio: mi sembra di aver sentito delle voci inquietanti. Apro e chiudo gli occhi velocemente nel tentativo di svegliami, ma le voci rimangono: allora ci sono davvero. Aguzzo l’udito, sono fuori dalla porta. “Sei sicura che sia qui?” “Ma certo… dammi solo qualche altro secondo per scassinare la serratura… è più dura di quanto pensassi.” Stanno venendo a salvarmi! Il mio pensiero corre subito a Santski, poi a Sorian e Freston, poi a qualcuno dei Ribelli di cui ci ha parlato Tutsi. Ma non appena la porta si spalanca appare sulla soglia qualcuno di totalmente inaspettato: soffoco un grido che mi sta nascendo in gola. È Giada. Ma lei è morta. Ha ancora un buco fumante lì dove dovrebbe esserci il cuore, dove è stata colpita. Gemo. Lei si avvicina, mi sorride. Trattengo bruscamente il respiro mentre mi libera, e rabbrividisco quando mi sfiora. È gelida. Ha la pelle bianca come quella di un cadavere. Non appena finisce di slegarmi con le sue mani mollicce scivolo a terra e lì resto per qualche secondo, frastornata. Lei mi sorride di nuovo. Ha i denti sporchi di terra. Gemo di nuovo e mi allontano da lei, schiacciandomi contro una parete. “Cos’hai?” mi chiede lei. Non rispondo. La sua voce è uguale a com’era prima. “Vieni. Sei libera. Se non ci muoviamo ci prenderanno.” Mi alzo con la paura negli occhi, faccio qualche passo esitante verso di lei. L’odore di carne in putrefazione mi colpisce come una zaffata. Reprimo i conati di vomito mentre lei mi fissa interrogativa. Non riesco a proferir parola. Giada esce dalla cella, ferma sulla soglia mi fa dei cenni con una mano. “Tu sei morta.” Le dico. Lei mi fissa come se non stesse capendo. “No. Io sono viva. Sono sorpresa che lo sia anche tu. È stata dura eludere la sorveglianza delle guardie e arrivare fino a qua, ma ce l’ho fatta. Per venire a salvarti.” Vedendo che la fisso con un’espressione orripilata sembra perdere un po’ la pazienza. “Senti, non so che diavolerie ti abbiano fatto qua dentro. Non so cosa ti abbiano fatto credere. Ma io sono viva. E lo stesso non si potrà dire di te se non ci muoviamo.” Detto questo sporge una mano per afferrarmi un braccio, io mi ritraggo con un grido. Il suo volto assume un’espressione ferita. “Giada, dov’è Swan?” le chiedo. Un’ombra dubbiosa compare sul suo viso, ma è solo un attimo. “È con Santski. Ci troviamo all’uscita.” Prova nuovamente a prendermi per un braccio ma io mi scosto da lei. “Sei morta! Sei morta!” le urlo in faccia. Lei sembra triste, poi sul suo viso compare un’espressione risoluta. “Vieni!” urla. Mi afferra per le spalle, io lotto per liberarmi da quella stretta fredda e umidiccia, ma lei è forte, cerca di trascinarmi fuori da lì ma io non voglio, lei è morta, non può essere qui… poi lei perde l’equilibrio. Cade all’indietro mulinando le braccia, poi sbatte la testa su quel blocco di pietra che fungeva da mia prigione. “Ljena…” sussurra con voce spezzata. Poi gira gli occhi all’indietro e la sua testa scivola di lato, lasciando una scia di sangue. E allora mi colpisce un dubbio atroce. E se veramente fosse stata viva? Se la sua morte fosse stata un’illusione? Se l’avessi uccisa io adesso? Mi afferro la testa con le mani, cercando di non impazzire. Allora decido di fare una cosa che mi ero riproposta di non fare mai più: ripercorro con la mente quel terribile giorno, ogni singolo dannato secondo, da quando Din ci chiese di raccogliere mirtilli al ritrovamento del suo corpo e di quello di Sylvia, l’attacco, la cattura di Sorian e Freston, la nostra fuga. E la morte di Giada. Terribile. Atroce. Una cosa così non può essere frutto della mia immaginazione. Guardo il suo corpo steso a terra, sembra un dejà vu, ho già visto il suo corpo morto. Non avrei voluto vederlo una seconda volta. Lo guardo per l’ultima volta, mentre tutto intorno a me svanisce e mi ritrovo dov’ero prima: legata in cella. Ho il volto umido. Tiro un respiro tremante mentre riecheggia una voce: “Ti arrendi?” “Mai.” Rispondo.
Sono sola, come al solito. Sono davvero sola?
O c’è gente che mi osserva? Magari sono tutti qui e questa è l’ennesima illusione, magari non sono sola, magari non lo sono mai stata.
Magari è tutto un sogno.
Magari fra un po’ mi sveglio e sono alla Scuola. Sto impazzendo?
Sento il rumore dei chiavistelli della porta,
è la quinta volta che sento questo rumore, non è mai entrato nessuno o forse si?
Questa volta la porta si apre per davvero, vedo con la coda dell’occhio un uomo entrare, è un uomo grosso, muscoloso, porta un vassoio e delle chiavi.
Mi slega.
Basta, dev’essere la solita illusione, basta, non ne posso più!
Mi divincolo dalla presa dell’uomo, lui è forte, non mi lascia, un’illusione non può essere forte, non è reale, io sono ancora incatenata alla mia prigione, sto impazzendo?
Il vassoio cade a terra con un tonfo, il piatto che c’era sopra cade a terra sparpagliando sul pavimento il suo contenuto, un cucchiaio, della minestra, un bicchiere colmo d’acqua cade a terra e si rompe, il rumore è fortissimo, irreale, assordante, mi divincolo da quest’uomo che impreca e mi stringe più forte, basta,
basta
BASTA!
Non ne posso più, di questo passo muoio, basta illusioni, basta realtà distorte, mi divincolo dalla presa di quest’uomo, lui mi lascia andare di scatto, cado a terra, batto la testa, l’uomo impreca rumorosamente e sfila qualcosa dalla cintura, un pugnale, mi ucciderà!
Prendo un frammento di vetro da terra e colpisco alla cieca, dove capita, come un animale in trappola, non sento più nessun rumore se non il battito del mio cuore e un ritornello nella testa, basta, basta…
Crollo a terra, respirando a fatica. Davanti a me c’è il cadavere dell’uomo, pieno di ferite. C’è sangue dappertutto. Perché non si dissolve tutto? Perché non si spezza l’illusione? Perché non mi ritrovo di nuovo incatenata? È tutto vero. L’ho ucciso davvero. È morto, morto davvero. L’ho ucciso io. Mi rannicchio su me stessa soffocando un grido. È tutto vero, ne sono sicura. Sono sicura solo di questo ormai. Mi volto da una parte, vomito tutto ciò che ho in corpo, fino a quando non rimane più niente. Per terra è tutto sporco di vomito, minestra e sangue. Vengo scossa da singulti silenziosi, poi mi rialzo tremante. Ricado a terra: dopo essere rimasta legata per così tanto tempo le gambe non mi reggono più. Rimango stesa a terra per un po’ tremante. Tutta l’adrenalina che avevo in corpo si è esaurita, e rimango sdraiata in questo schifo senza riuscire a pensare a niente. Santski. Il pensiero giunge veloce come un fulmine. Devo trovarlo. Mi rialzo e fisso per qualche secondo il cadavere dell’uomo, gli sfilo in pugnale dalla mano e il mazzo di chiavi dalla cintura, poi mi allontano verso la porta aperta. Torno indietro, chiudo gli occhi all’uomo. Getto uno sguardo al corridoio, è vuoto. Santski è nelle celle a destra, lo sento. Mi guardo ancora una volta alle spalle, poi inizio a correre.

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