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Santski

Sono in un grande salone, molto bello. Non sono solo. C’è Ramsey con me. È in forma umana, vestita con un bel vestito bianco. “Perché sei vestita così?” le chiedo. Lei mi guarda un po’ strana. “Oggi è il grande giorno, insomma. Ljena e Morglock annunciano alle famiglie il matrimonio, e così faremo noi. È naturale che mi voglia vestire bene. Che c’è, non ti piace?” “No, sei bellissima” le dico, e lo penso davvero. Le prendo la mano. Ma certo, il matrimonio. Come ho fatto a dimenticarmelo? Sarà l’ansia. Dopotutto anche io sono vestito abbastanza bene, il che non è da me. “Vieni” mi dice lei, conducendomi fuori. Io la seguo. Andiamo su un balcone, fuori c’è il sole. Vorrei trasformarmi e volare un po’, ma non lo faccio. È così bello… poi un dubbio mi assale, e nonostante ci sia il sole sento un grande freddo. C’è qualcosa che non va. Sciocchezze, mi dico, cosa c’è che non va? È tutto perfetto. Ma non riesco a togliermi questa sensazione di dosso, e all’improvviso tutto ciò che vedo non mi sembra più bello, ma freddo e ostile. C’è qualcosa che non va… ma cosa? Poi un dubbio mi assale la mente, forse è quello. Insomma, ho appena sedici anni, sono troppo giovane per sposarmi. Credo. Possibile me ne sia reso conto ora? Insomma, a chi è venuta questa idea del matrimonio? Esprimo i miei dubbi ad alta voce, e Ramsey mi guarda in modo strano. “Giovani? Ventisette anni non ti sembrano abbastanza? Insomma, potevi anche dirlo prima.” È seccata. Ventisette? Ma… io… io cosa? Cosa c’è che non va? Ventisette anni. È la mia età. È giusta. Scaccio quei dubbi con una scrollata di spalle. Poi sento come se una mano di ghiaccio mi avesse artigliato il cuore: di nuovo quella sensazione. Ma cos’è? Fisso Ramsey in cerca di una risposta, ma non ne trovo. Poi me ne ricordo: Ramsey è morta. È morta. Mentre questa consapevolezza si fa strada verso di me la fisso attentamente: non è più bella. Ora il suo viso è spigoloso, è molto più magra, sembra uno scheletro. È morta. Lei si gira verso di me e mi chiede: “Qualcosa che non va?” ma la sua voce non è quella di sempre, è aspra, acuta, crudele. “Tu sei morta” le dico. Sento la sua risposta come in fondo ad un tunnel, mi sembra di essere sott’acqua, non capisco niente. “Ma no, cosa dici? Sei sicuro di stare bene?” “Sei morta. Sei morta.” Balbetto. Lei si precipita su di me, la faccia deformata dalla rabbia, non sembra più lei. Mi afferra la gola con le mani. “Non è vero. Non è vero.” sibila, mentre cerca di strangolarmi. Cerco di staccare le sue mani dal mio collo, di allontanarla da me, iniziamo a lottare, mentre lottiamo il suo corpo perde spessore, nitidezza, sembra di carta, ma non per questo i suoi attacchi si fanno meno feroci. Continuo a lottare, vuole uccidermi, e poi improvvisamente… non so come sia successo. Non so perché l’ho fatto. Ma lei è lì, tre piani più in basso, sembra che dorma ma ha il collo piegato ad una strana angolazione. È morta. E l’ho uccisa io. L’ho buttata giù da un balcone. Ma lei era morta. Era già morta perché l’ho uccisa? Come ho… “Ramsey!” si sente un grido terribile. Morglock. Nella sua voce un dolore inimmaginabile, lo stesso che, dopo tre secondi prende anche me. Sostituito da un vago senso di stupore. È già morta. Perché ci sto così male adesso? Perché l’ho uccisa io, a sangue freddo, è morta a causa mia. Ma non posso averla uccisa. Non capisco più niente. Guardo Morglock inebetito mentre mi grida contro, piange, si dispera, ma non lo sento perché lei era già morta. È morta tanto tempo fa, e allora… il cielo, la casa, Morglock e Ljena, sembrano farsi di vetro sottile, fino a quando non si infrangono e io ritorno dov’ero quando l’illusione mi ha colto: in cella. Ho il volto bagnato: sto piangendo. “Ti arrendi?” dice una voce. “Mai.” Rispondo.
In questo momento entra Morglock. “Mai?” mi chiede minaccioso. Con se porta una gabbia coperta da un panno. La scopre. Dentro ci sono tanti miei simili, dei corvi furiosi che si beccano l’un l’altro. Non sopportano la prigionia. “Questi esseri sono cannibali, Santski. Pazzi, completamente. Non vedi come si attaccano? Potrebbero uccidersi, lo faranno presto. C’è solo una cosa che posso fare per evitare che ciò avvenga: dargli un altro individuo da mangiare.” E dopo aver detto questo apre lo sportello della gabbia. Per un attimo ho la speranza folle che si avventino contro di lui, poi i corvi fissano i lori sguardi che sembrano di pietra lavica su di me e mi accorgo di quanto sono pazzi. Mi sbraneranno vivo. Gracchiano tutti insieme prima di avventarsi su di me con i loro becchi e i loro artigli che sembrano di metallo, ferendomi il viso, le braccia, il petto. Cerco di levarmeli dalla faccia ma non posso muoverla, non posso neanche ruotarla, serro forte gli occhi per paura che me li strappino via, ormai ho così tante ferite che non le conto più, sento la mia stesa pelle squarciarsi negli avambracci, dove la pelle è più liscia, sono pieno di sangue, spero che almeno questo mi renda scivoloso e rallenti i corvi ma non succede, ma non mi riconoscono? Sono io, un corvo, sono uno di loro, non possono attaccarmi così, i corvi non lo fanno, non mangiano i loro simili, eppure sento distintamente tutto il dolore quando mi viene strappato un brandello di pelle, il dolore è tutto ciò che sento a parte il furioso gracchiare dei corvi impazziti e la risata di Morglock, insopportabile… Morglock? Strano. Lui non è mai venuto a torturare me, veniva sempre Terrore, lui dovrebbe essere con Ljena, meno male che non è con lei, o forse no, Terrore non si farà troppi scrupoli nell’ucciderla… ma perché hanno cambiato il gioco? Che senso ha? Forse non ha un senso, forse è solo un errore. Ma Morglock non commette errori, a meno che… il dolore ora è meno nitido, sembra quasi un ricordo. Anche i rumori della stanza sono meno nitidi. Mi concentro su Morglock, sul fatto che non dovrebbe essere qui, e pian piano tutto sfoca leggermente, forse è solo perché sto svenendo, penso, e subito tutto si fa più chiaro. No, non sto svenendo. Mi concentro ancora su quell’errore, imperdonabile, su Morglock che non dovrebbe essere qui. E all’improvviso, come prima, tutto intorno a me sembra farsi di vetro sottilissimo, e si infrange. Sono ancora nella cella, ma solo. Non sono ferito, se non psicologicamente. Ho paura di stare impazzendo. Mi sono entrati nella testa, mi fanno provare ciò di cui ho più paura, come un incubo dal quale è impossibile svegliarsi. Ho il respiro affannato. “Ti arrendi?” dice una voce. “Mai.” Ansimo.
Resto un po’ solo, il tempo di calmarmi. Poi la porta si spalanca, ma non come fa ogni volta quando entra Morglock: questa volta si spalanca come se qualcuno l’avesse spinta con forza, va a sbattere sul muro, ne entra Freston correndo. Si richiude la porta alle spalle con violenza. Porta con se un mazzo di chiavi. Mi slega freneticamente dai legacci che mi tengono prigioniero, cado a terra. “Alzati” sibila Freston, in un tono così inusuale per lui che mi alzo di scatto. “Trasformati. Fra poco saranno qui. Sorian e Ljena ci aspettano all’uscita delle segrete.” Obbedisco subito, lui si porta vicino alla porta, la apre poi corre fuori, in forma di gatto selvatico. Com’è bello poter volare! Lo seguo mentre si lancia a rotta di collo in un intricato labirinto di corridoi, fino a quando non incrociamo quattro guardie armate. Lui scivola loro fra le gambe, io gli volo sopra, ma quelli in un attimo ci sono addosso, non lasciandoci altra soluzione se non quella di ritrasformarci e combattere. Li uccidiamo tutti, uno dopo l’altro, combattendo insieme con la stessa sintonia che avevamo un tempo, come se non fosse passato nemmeno un minuto. Uno di loro però riesce a dare l’allarme. Corriamo via, senza il tempo di poterci trasformare, inciampo, lui mi sorregge, poi cade lui, io lo aiuto a rialzarsi. Corriamo senza parlare, per risparmiare fiato. Non appena giriamo un angolo sento un sibilo nell’aria che mi fa paura. “Attento!” grido a Freston prima di gettarmi a terra, per evitare il nugolo di frecce che ci passano sopra la testa. Il mio migliore amico non è altrettanto fortunato. Non appena sente il mio grido si volta sorpreso, così le frecce che lo avrebbero colpito alla base del collo gli trapassano invece la gola. Un fiotto di sangue fuoriesce dalle sue labbra non appena il sangue gli invade il respiro, barcolla sul posto, poi cade a terra di fianco a me. Non è ancora morto, ma per poco. I rantoli che escono dalla sua gola sono strazianti. Striscio vicino a lui. “No, amico, ti prego, non morire, non lasciarmi solo” gli dico, mentre i miei occhi si riempiono lentamente di lacrime. “Posso ancora salvarti” provo a dire per rassicurarlo. Lui sorride, i denti macchiati di sangue, il respiro che fuoriesce dalla ferita aperta che ha sulla gola, proprio come la sua vita. “No, non è più possibile. Vai, salvati.” Mi dice. Contrae il viso in una smorfia, tossisce un grumo di sangue. Parlare gli costa fatica. “No, non parlare, cerca di vivere. Io non ti lascio solo” cerco di dirgli, ma vengo interrotto dai miei stessi singhiozzi. Le mie lacrime si fondono al suo sangue. “Vattene, Santski! Non lasciare che ti prendano!” “Non ti lascio solo un’altra volta, una è bastata. Non me lo sono mai perdonato. Troverò il modo di salvarti, ti porterò via con me, farò in modo che…” lui mi interrompe. “Santski, non importa. Vai, morirò comunque. Sai… dopotutto… non mi dispiace troppo morire così. Con te. Per salvarti.” Piango, non riesco a dire niente. “Non lasciarmi…” singhiozzo. “Ti voglio bene, Santski” dice lui per l’ultima volta. Poi emette un ultimo, terribile rantolo, rovescia la testa indietro e rimane immobile. Il suo corpo si raffredda lentamente, mentre ancora gli tengo una mano. È morto. Morto. Un’altra persona che mi lascia solo su questa terra. Un’altra persona della cui morte mi sentirò sempre responsabile. Mi alzo, l’idea di lasciare il suo corpo lì in mano ai soldati mi è insostenibile. Ma devo andare, o mi prenderanno. Un fatto strano mi colpisce: perché non sono già qui? Hanno scagliato le loro frecce, dunque erano vicini. Cosa spettano a saltarmi addosso? Forse pensano che siamo morti entrambi, ma in questo caso allora perché non se ne accertano? Perché non vengono a prelevare i corpi? Non sento neanche più i loro passi in effetti. Giro timoroso l’angolo. Nessuno. Dunque non è un agguato. Davanti a me nessuno, dietro nessuno. Da dov’è che hanno tirato? E se fosse una trappola? E se invece non fosse reale? Sento come uno scricchiolio, mi volto e tutto diventa di vetro, che si infrange con quel familiare rumore di vetri infranti. Sono di nuovo in cella. “Ti arrendi?” “Mai.”
Ci metto un po’ di più questa volta a riprendermi dalla visione: è stato terribile. Per quanto posso ancora resistere? Non per molto, ogni volta sembra tutto così reale, mi sembra di cadere, di impazzire forse sono pazzo! Il mio corpo è scosso da un tremito incontrollato, non riesco a smettere per quanto lo voglia. Sono sconvolto. Sento la porta aprirsi e ne entra di nuovo Morglock. “Ti arrendi?” mi chiede un’ultima volta. “Mel’hai chiesto poco tempo fa. E la risposta non è cambiata.” Provo a mostrarmi coraggioso, ma lui sorride. “Volevo solo accertarmi di questo. Sai, non vorrei farti vedere ciò che ti farò vedere, ma non mi lasci altra scelta…” dopodiché fa schioccare le dita e fa entrare nella cella due guardie che scortano un prigioniero incatenato in mezzo a loro: è Ljena. “Ljena!” la chiamo, lei si gira verso di me: è ferita, è sporca di sangue in più punti. Ma cosa le hanno fatto? Mi dibatto, cerco di chiamarla, di andare da lei. Lei non mi risponde. “È inutile, Santski. Non ti risponderà.” Mi dice Morglock. “Che cosa le avete fatto?” chiedo con aria supplichevole. Una delle due guardie mi sorride crudele, e immediatamente lo riconosco: è quello che ha ammazzato Giada. Me lo ricordo. L’altro invece, magro come un chiodo, mi aveva quasi catturato, gli ero sfuggito per un soffio. Sono due dei Tredici. “Le abbiamo tagliato la lingua.” Mi informano con disumano piacere. “I suoi lamenti erano così noiosi…” cerco di liberarmi con più veemenza di prima, grido insulti, scalcio, mi dibatto. Li diverto soltanto. Ljena mi fissa, parla nella mia mente: “Non dibatterti, non ribellarti o ti puniranno più duramente.” A poco a poco mi calmo. “Volevo solo essere sicuro” continua Morglock. “Ti arrendi?” “No.” Ripeto. Il soldato magro tira fuori un frustino sottile da sotto la giubba e penso mi voglia frustare, ma non lo fa: frusta Ljena. Percepisco il dolore non appena lo percepisce Ljena, ma sebbene sia un male minore rispetto agli altri che ho patito mi sembra sia più doloroso, perché lo sta patendo lei, non io. Finché le torture le scontavo solo sulla mia pelle era un conto, questo è dieci volte peggio. “Ti arrendi?” “No.” Un’altra frustata, un’altra stilettata di dolore, un’altra ondata di senso di colpa bruciante più della frustata in se. “Ti arrendi?” “No.” Un altro round. Squarci si aprono nella nostra pelle. Fa male, molto più di quanto pensassi. Ljena non mi parla, non vuole comunicare con me o forse è troppo concentrata a non arrendersi al dolore. Forse ce l’ha con me, non mi aveva mai escluso dai suoi pensieri prima d’ora. Ha ragione, è colpa mia dopotutto. “Ti arrendi?” “No.” Frustata, dolore. “Ti arrendi?” “No.” Frustata, dolore. È come uno schema che si ripete cento, mille volte. Cerco di raggiungere Ljena in qualsiasi modo, le chiedo scusa. “Ljena, scusa, perdonami, non volevo. Non possiamo arrenderci. Scusa, non volevo che ti succedesse questo. Scusa, scusa.” Lei non mi risponde, mentre questo schema si ripete ancora e ancora. Fino a quando non mi dice: “Arrenditi. Ti prego, arrenditi, non ce la faccio più, ti prego, è troppo, un altro colpo e muoio.” Arrenditi? Dev’essere distrutta. Ljena non mi direbbe mai di arrendermi. Sorrido. Ecco qui il grande errore di Morglock: Ljena non si arrenderebbe mai, nemmeno sotto tortura. Questa non è Ljena. Ljena non si arrenderebbe, Ljena non mi incolperebbe di niente. Lo so con assoluta certezza perché nemmeno io lo farei, e io e lei siamo uguali. E poi lei non mi chiuderebbe mai la mente così. “No, non mi arrendo.” Dico, sempre sorridendo. E tutto si infrange. Sono di nuovo in cella, come prima, da solo. Stremato. Ogni volta è più difficile riconoscere gli inganni. Non ho nemmeno riconosciuto Ljena subito, e avrei dovuto. Non mi posso fidare delle mie sensazioni, vuol dire che non mi posso fidare più nemmeno di me stesso. Di cosa posso fidarmi allora? È questa la solitudine? È questa la pazzia?
“Ti arrendi?” “Mai”

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