Supernova

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A mio fratello

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A mio fratello. Post fata resurgo.

[Soulmate!AU piuttosto particolare, è più una specie di Karma!AU in effetti... siete avvisati]

Dove sei tu, luce, è il mattino.
Tu eri la vita e le cose.
In te desti respiravamo
sotto il cielo che ancora è in noi.
Non pena non febbre allora,
non quest'ombra greve del giorno
affollato e diverso. O luce,
chiarezza lontana, respiro
affannoso, rivolgi gli occhi
immobili e chiari su di noi.
È buio il mattino che passa
senza la luce dei tuoi occhi.

_ Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
(30 marzo 1950)



~ Supernova ~


Non capisci che hanno legato se stessi
fino alla fine del Tempo?
Attraverso tutte le loro vite, tutte,
non questa soltanto, ma di vita in vita!
Mai saranno liberi, mai, fino alla completa espiazione;
la vita di ciascuno sarà legata ai cuori di entrambi...
Piccola cosa sono, paragonate a questo,
le maledizioni degli uomini!
{ dalla testimonianza di Maleina, Sacerdotessa e Adepta dell'Antico Culto[1]


Quando mi svegliai, quella mattina, il letto era gelido.

Allungai una mano, per cercare Albus accanto a me, ma le dita vagarono a vuoto sopra le pieghe sgualcite delle lenzuola.

Mi voltai su un fianco, inquieto; avevamo abitudini diverse - lui era solito destarsi all'alba, io non prendevo nemmeno in considerazione l'ipotesi di alzarmi prima di mezzogiorno -, tuttavia, da quando avevamo cominciato a condividere anche l'intimità della notte, non se n'era mai andato in quel modo, di soppiatto, in silenzio, senza un abbraccio, o un ultimo bacio - al quale, comunque, ne sarebbe immancabilmente seguito un altro, e poi un altro, e un altro ancora, fino a che, di nuovo, non ci saremmo smarriti l'uno dentro il desiderio disperato dell'altro.

Poi, d'improvviso, ricordai.

Rabbrividii, e gettai un'occhiata fugace verso la finestra: al di là dei vetri opachi nulla era visibile, poiché una coltre inviolabile, scura e densa come pece, sembrava aver inghiottito ogni cosa tra le sue fauci fumose. Quella appena trascorsa era la notte del Solstizio d'Inverno - Yule, la notte più lunga, buia e fredda dell'anno (sogghignai, pensando a come avessimo combattuto, letteralmente, questa particolare difficoltà) - e Albus, prima di addormentarsi, aveva manifestato l'intenzione di recarsi a osservare il sorgere del sole sulle alture intorno a Godric's Hollow.

Io, colto da un sottile, inspiegabile turbamento, avevo cercato di dissuaderlo «Sei matto? Nevica da giorni, e là fuori sembra di essere all'Inferno, dal freddo che fa!», con scarsi risultati, ovviamente, dal momento che, come avevo presto imparato a mie spese, era un'impresa impossibile convincere Albus a cambiare idea, una volta fattosi persuaso della legittimità di una decisione. Del resto, sebbene fosse, senza ombra di dubbio, un impareggiabile ascoltatore, sempre pronto a concedere spazio e a trattare con il dovuto rispetto ogni opinione, anche quella più audace, avversa o distante dalla sua, era in egual misura innegabile che l'ultima parola su come agire, o su cosa fosse giusto, opportuno, conveniente - o meno - pensare, spettasse ad un solo e unico giudice: lui stesso. Nessuno, nessuno - nemmeno io, malgrado potessi, a ragione, vantarmi di avere con lui una quasi (quasi) totale identità di vedute - infilava a forza in quelle sue sinapsi iperattive considerazioni, concetti, ragionamenti che non fossero in esse già ben presenti. La sua percezione della realtà era sorprendentemente acuta, penetrante, affilata: il suo ingegno la sezionava con la maestria e la precisione di un chirurgo chino sul suo tavolo operatorio. I suoi occhi, taglienti come schegge di cobalto, avrebbero saputo strappar segreti ai dannati, anche se, in verità, lo scintillio ironico e comprensivo da cui erano spesso animati spingeva i suoi interlocutori a fidarsi istintivamente di lui. Ma quando il disappunto, o la rabbia, tingevano d'inchiostro quelle gocce d'oceano, allora era meglio - necessario - piegare la testa e pregare di non essere i destinatari della sua furia. Solo io, in quei momenti, ero in grado di affrontarlo, sostenendo il suo sguardo, annegandoci dentro, e se, nel profondo di me stesso, tremavo, non era per sgomento, né per paura. Il fuoco ardeva in lui, inestinguibile, rendendolo una porta, un canale aperto verso il potere - potere che lui vestiva d'umana sembianza[2] -, e io, inevitabilmente, ne ero ammaliato, rapito, soggiogato.

GRINDELDORE ~  As my memory rests, but never forgets what I lostDove le storie prendono vita. Scoprilo ora