Capitolo 1

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Gli occhi di mio padre sono un pugno allo stomaco. Mi ricordano spaventosamente i suoi. Sono costretta a distogliere lo sguardo, mentre il suo è ancora fisso sul mio grazie allo specchietto retrovisore. Passo le mani sui jeans scoloriti che mia madre non approverebbe affatto, ma me ne frego. Da questo momento posso indossare quello che voglio, o almeno questo è quello che mi auguro. "Potevi sederti al mio fianco", sussurra con la sua voce calda e tranquilla. L'ho sempre amato e non riesco ad odiarlo neppure ora mentre lo vedo arrendersi con me. "Sembro un tassista", accenna un sorriso che di vero ha ben poco. Noi due abbiamo smesso di sorridere da un pò, e per quanto lui cerchi di andare avanti, sappiamo entrambi che non è affatto possibile. "Allora ti conviene correre, il tassometro gira", pronuncio le mie prime parole della giornata. Parlo poco, davvero poco e questo è un altro motivo per cui i miei genitori hanno deciso di intervenire. Non posso biasimarli, eppure non riesco a trovare un lato positivo in tutta questa faccenda. Ognuno è libero di vivere o di lasciarsi morire come meglio crede. Eppure non tutti la pensano così. "Sai che preferirei continuare a girare all'infinito piuttosto che lasciarti in quel posto". Non rispondo, per oggi ho già dato. Mi limito a fissare le foglie che ricoprono le strade di New York e che per un pò di tempo non vedrò. Non ho fatto ricerche su questo posto, non so bene cosa mi aspettassi ma non avevo alcun dubbio che urlasse lusso da ogni sua piccola fessura. Lo odio già, e questo è solo il primo di trecentossantacinque giorni.


"Entriamo?" Sento le dita di mio padre sfiorare le mie ancorate alla valigia. Mi allontano, so di ferirlo con il mio atteggiamento ma non ha idea di quanto io sia ferita da tutto questo. "Pensavo ti fossi occupato tu della scelta della location", affondo i denti nel mio labbro inferiore dal quale so uscirà del sangue. "Tua madre paga, per cui..", scuote le spalle. Ho una gran considerazione di mio padre, ma odio il modo in cui permette a sua moglie di prendere decisioni su tutto. "Certo", deglutisco prima di fare un primo passo sul viale perfettamente curato di questo posto. "Benvenuti signori Rogers". Una donna mora, alta e con un profondo accento inglese ci sorride. Mio padre cerca di fare del suo meglio, mentre io mi perdo in ogni angolo di questa stanza che mi ricorda vagamente la hall di uno dei tanti Hotel scelti da mia madre per Capodanno. "Kendra, giusto?". Faccio un passo indietro colpita dalla vicinanza della sua voce. "Si", la guardo e trovo due occhi troppo curiosi e pieni di compassione, ma io non ho mai avuto bisogno di questo. "Sono Anne, la direttrice della clinica. Sono sicura che ti sentirai come a casa qui da noi". Le rifilo un'occhiataccia che non passa inosservata neppure a mio madre, ma saggiamente nessuno dei due commenta. "Bene", Anne sorride ancora mentre io voglio solo restare da sola. Non chiedo altro. "Direi che è arrivato il momento dei saluti", la sua espressione si addolcisce, così come quella di mio padre che cerca ad ogni costo di trattenere le lacrime. A me riesce facile ma devo ammettere che lui mi mancherà moltissimo. Anne si allontana di qualche metro lasciandoci soli. "Verrò a trovarti una volta alla settimana", le mani di mio padre afferrano il mio viso scarno, pallido, privo di qualunque forma di vita. "Va bene", sospiro guardandolo negli occhi a lungo. Lui abbassa lo sguardo consapevole di non ottenere altro da me. Odio gli addii e credo che questo lui l'abbia capito molto tempo fa. L'ultima cosa che vedo prima di essere nuovamente assalita dal profumo di Anne, sono le spalle rigide di mio padre lasciare questo posto.


"Andiamo a vedere la tua stanza?" Annuisco. So di non essere una persona facile al momento, so che questa donna, tanto bella e all'apparenza gentile, non ha nessuna colpa. So che non sarà facile a prescindere da come tutto questo andrà a finire. "Ti faccio strada", increspa le labbra in un sorriso incerto prima di avanzare verso un'elegante scalinata in mogano rossastro. E' tutto così ridicolo. "Ero seria prima", riprende a parlare mentre una sfilza di porte rosse accompagnano il nostro giro turistico alla riscoperta di antichi reperti archeologici. Sarà anche costosissima questa clinica, ma dovrebbero seriamente rimodernarsi in fatto di arredamento. "Ti troverai davvero bene da noi. Siamo come una famiglia".
"Generalmente gli ospedali non sono bianchi?" Sbuffo storcendo il naso a causa di un maledetto tappeto persiano grazie al quale avrei potuto tranquillamente rompermi la noce del collo.
"Allora non sei muta?" Scoppia a ridere, io la fisso male ancora una volta. "Anche prima ho parlato", faccio una smorfia. Probabilmente in questo modo si arrederà anche lei con me. "Già, come dimenticarlo. Dovrebbero metterti la museruola", porta le mani ai fianchi. Vorrebbe essere simpatica, forse lo è ma al momento direi di no. Evito di rispondere alla sua provocazione. Con me non attacca più nulla. "Ad ogni modo, questo non è un ospedale. Considerala una casa di recupero. Vogliamo davvero aiutati". "Immagino", sospiro. "La mia stanza?".
"Da questa parte", scuote il capo ma credo sappia che questa è solo la prima di tante battaglie che perderà con me.

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