Capitolo 5

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Ci sono venti sedie attorno a questo tavolo. Sembra di essere ad una conferenza importante. Tutte siamo in ansia e mi chiedo perchè ci siano solo ragazze in quest'ala della clinica. Le prime sedie iniziano a riempirsi, Anne fa il suo ingresso con suo marito di cui non conosco ancora il nome. Pochi secondi e lo vedo. Sono ancora sotto l'arco della porta quando Anne gli sorride e gli fa cenno di sedersi al suo fianco. Ora ho la nausea e nessuna voglia di partecipare a questa sottospecie di seduta spiritica. Ognuno ha preso posto, resto solo io e questo non passa di certo inosservato agli occhi della proprietaria di questa gabbia d'oro. "Kendra, unisciti a noi", ovviamente mi sorride mentre io divento un palo della luce, quando troppi occhi cadono su di me, compresi i suoi. Non capisco perchè questo ragazzo mi metta tanta soggezione, certo è bello ma ne ho conosciuti di bei ragazzi in vent'anni di vita. Eppure lui ha qualcosa, qualcosa che mi spaventa e incuriosisce allo stesso tempo. Cancello subito queste sciocchezze dalla mia testa. Queste cose non fanno per me da troppo tempo e non ho alcuna intenzione di scervellarmi dietro un bel faccino. E' inutile. Con passo incerto mi avvicino alla tavola ritrovandomelo di fronte. La sfortunata del giorno sono io e me lo merito per aver temporeggiato troppo a fissare il vuoto. Davina, come tutte le altre, ha un sorriso a trentadue denti spiaccicato in faccia, ed è vero: Karl non guarda nessuna. Nessuna tranne me. Questa cosa mi agita e non poco. Mi trova più strana, scheletrica o brutta delle altre? Mi passo le dita fra i capelli portando lo sguardo sullo spazio, ancora vuoto, fra me e il bicchiere di cristallo. So già che non andrà a finire bene ma devo almeno provare a passare inosservata. I cuochi della clinica entrano in sala con una serie di carrellini in argento che al contatto con il marmo provocano un rumore inquietante. Stringo le mani sotto al tavolo torturandole fra loro, non pensavo fosse tanto umiliante ma tiro un sospiro di sollievo, quando le pietanze vengono servite al centro della tavola in un grande piatto dal quale ognuno di noi può prenderne quanto ne vuole. Afferro un piatto vuoto dalle mani di una ragazza seduta al mio fianco e aspetto. Non so bene cosa, ma aspetto. Mi impongo di tenere lo sguardo basso. Non posso e non voglio controllare se lui sta guardando. Non dovrebbe neppure interessarmi. Quasi tutti i presenti hanno riempito il loro piatto, chi più, chi meno. Ancora una volta sono ultima, ancora una volta vorrei prendermi a sberle per questo. Allungo la mano verso quel piatto ancora mezzo pieno. Cucinano davvero tanto qui. Non ho fame ma credo di aver già attirato fin troppe attenzioni, così afferro un pezzo di pollo allo spiedo e lo poggio nel mio piatto bianco. Lo guardo, lo punzecchio con la forchetta ma quando arriva il momento di portarlo alle labbra mi blocco. Non ci riesco. I sensi di colpa tornano a bussare alla mia porta. Mangiare per me significa stare meglio, cercare di riprendersi ma io non voglio. Voglio che la vita mi abbandoni piano, lentamente. E' un discorso triste, a tratti inquietante ma è quello che voglio. Ci sono momenti in cui provo pena per mio padre, so di fargli del male. So che non merita anche questo. Tuttavia, la maggior parte delle volte scelgo di essere egoista, di fare quello che per me è giusto fare. Poso la forchetta sporca di cibo che non ha mai sfiorato la mia bocca."Kendra", la voce calda e dolce del signor psicologo mi fa sobbalzare. Speravo con tutta me stessa che nessuno si accorgesse di me. Speravo con tutta me stessa di essere trasparente agli occhi di tutti. Alzo lo sguardo incrociando il suo ma sento altri occhi bruciare sulla mia figura. "Dopo vorrei parlarti". Vorrei rifilargli una delle mie solite risposte ma non ci riesco. Non stavolta e credo di sapere anche il perchè. Sposto lo sguardo alla mia destra e per la seconda volta i nostri occhi si incontrano."Va bene", sussurro con un fil di voce abbassando di nuovo il capo sul mio piatto vuoto.

"Partiamo da zero".
"Come si chiama?" Domando scuotendo il capo non appena mi indica il lettino. "Dan", sospira andandosi a sedere dietro la sua scrivania, io resto in piedi. Non riuscirei mai a stare ferma ora come ora. "Mh, carino", scuoto le spalle guardandomi intorno. Questa stanza è tappezzata da premi, lauree e Dio solo sa cos'altro. "Non le è mancato di certo il tempo per studiare", aggiungo con il mio solito sarcasmo piccato. "Direi di no", le sue labbra si increspano all'insù. "Ma non siamo qui per parlare di me".
"Ah, no?". "Cosa ti blocca, Kendra?". "Nulla", rispondo mantenendo lo sguardo fisso nel suo. Nell'ultimo anno ho mentito spesso, sono diventata quasi brava. Credibile. "Tuo padre mi ha parlato di quello che è successo a...". "Non parlerò con lei di quello", metto in chiaro. "Perde il suo tempo con me. Non ho alcuna intenzione di guarire. Non sono malata", sbotto. "Nessuno ha mai detto che tu lo sia". "La smetta". Incrocio le braccia al petto. "Hai dei problemi alimentari, tutto qui", replica con una scrollata di spalle. "Dei problemi alimentari", sbuffo una risata. "Ora li chiamate così? Wow, siete davvero bravi a prenderci per il culo, peccato che con me non attacca".
"Kendra, spesso una malattia è solo una stato mentale". "Appunto, quindi non vedo motivi per cui io debba essere rinchiusa qui". "Non sei rinchiusa", si acciglia. "Questo non è un carcere. Puoi uscire quando vuoi. Il nostro scopo è capire perchè vuoi farti del male". "Mi scusi signor Dan, ma credo che questi siano cazzi miei", mi appoggio al muro. "Senza alcun dubbio", ridacchia. "Mettiamo caso che io voglia farmi i cazzi tuoi. Saresti d'accordo?" Inarca un sopracciglio e per un attimo, uno soltanto, mi viene da sorridere. "Le direi che dovrebbe denunciare i suoi professori universitari. Avrebbero dovuto dirle che non si usano le parolacce con i pazienti". "Ma tu non sei paziente. Non lo sei affatto", la sua faccia è puro sgomento e a quel punto non riesco. Scoppio a ridere come forse non ho mai fatto prima. "Uno a zero per lei signor psicologo". "Questo vuol dire che scambieremo due chicchiere?" Domanda speranzoso e quasi mi viene voglia di accontentarlo. "Magari un giorno, ora ho sonno", divento triste ancora una volta. La mia vita è questo, costantemente altalenante. Una giostra dalla quale vorrei scendere ma farlo mi mette paura. "Certo", anche il suo umore è cambiato. "Non ti dirò cosa devi e cosa non devi fare Kendra. In cuor tuo lo sai", aggiunge prima di abbassare lo sguardo alle sue scartoffie. Annuisco pur sapendo che non potrà vedermi e me ne vado in silenzio. Come ogni volta.

Davina ha ragione. Questo posto è enorme. Ogni cosa è perfettamente curata, dalla panchina in vernice bianca, al gazebo in legno pieno di sedie posizionate a cerchio. Sarebbe il set ideale per un film horror ma devo ammettere che, in un'altra occasione, avrei considerato tutto questo persino carino .C'è un'amaca rosa legata a due alberi. In questo momento vorrei il mio i pod, ma ovviamente dovevo dimenticarlo insieme a tante altre cose che avrei voluto portare. Potrei chiedere a mio padre ma non so davvero come sarà il mio umore durante il nostro prima incontro. L'unica cosa di cui sono sicura, è che mia madre non ci sarà. Lo preferisco. Mi stendo chiudendo gli occhi, l'aria è calda, siamo in pieno pomeriggio e mi sale l'angoscia al pensiero che fra poche ore dovrò risedermi attorno a quel tavolo. Come da ormai un anno, avvolgo le dita attorno al mio polso. Lo racchiudono alla perfezione e questo scatena in me un malsano senso di appagamento. Non metto nulla sotto i denti da ieri sera. Poi mollo la presa, chiudo ancora gli occhi e penso a come sarebbe stata questa estate con lui. Un nodo in gola rischia di farmi piangere ma prima che questo posso accadere, una voce roca colpisce i miei timpani. "Comoda?" Sgrano gli occhi e avrei preferito esser sorda quando capisco a chi appartiene quella voce. La mia, credo di averla persa. "S-si", balbetto. Vorrei davvero sprofondare dalla vergogna in questo momento e mi odio perchè non sono mai stata tanto impacciata con i ragazzi. "Mh, lo so. L'ho costruita io, quella", mi indica, o meglio indica l'amaca sulla quale stavo cercando di rilassarmi fino a due minuti prima. "Capisco", faccio per alzarmi ma con un cenno della mano mi blocca. "Non ti ho detto di andartene", ammicca un sorriso, uno di quelli per cui qualunque ragazzina in piena crisi ormonale sverrebbe. Ma non è il mio caso, non sono più una ragazzina e non ho alcuna crisi ormonale al momento. "Sono Karl", allunga una mano nella mia direzione e io, semplicemente la fisso come fosse una pistola. "Scusa devo andare", stavolta mi alzo per davvero. Ci riesco anche se mi tremano le gambe. Lo sorpasso e per fortuna riesco a non alzare lo sguardo per vedere il suo viso. Il mio è in fiamme. Sono imbarazzata. Mai successo. Poi la sua voce mi colpisce ancora. Mi viene da sorride e Dio, non voglio sorridere. "Nessun problema, Kendra", urla alle mie spalle. Il mio nome sembra quasi bello, ora.

Maledetta Anne, maledetto Dan. O  forse no.

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