Capitolo 11

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Non sono esattamente a mio agio in questa situazione. Karl da un lato, Davina dall'altro ed Anne che continua a mandarmi strane occhiate. Mangio poco, quasi nulla. Sono in ansia per dopo, non so davvero cosa frulli nella testa di quel ragazzo. Alcune ragazze si alzano da tavola e salutano augurandoci la buonanotte. Potrei affermare con certezza chi di loro andrà a dormire per davvero, e chi invece in camera farà altro. Con il tempo ho imparato a riconoscere i sintomi come credo anche tutte le altre presenti qui, Anne compresa. Suo marito questa sera non c'è. In realtà è passato un bel pò di tempo dall'ultima volta che l'ho visto. E' un tipo simpatico, in questi giorni ho quasi pensato di andare a parlare con lui. Ovviamente ho cambiato idea a pochi passi dal suo studio. Le ultime ragazze finiscono la loro cena tranquillamente, mentre io non so che fare. Dovrei alzarmi e far finta di tornarmene in stanza? Credo sia la soluzione migliore, ma proprio quando sto per farlo, Karl si alza rovinando ogni mio piano di mimetizzazione. "Andiamo?" Mi guarda come se fossimo soli in questa stanza. Sento troppi occhi su di me. Vorrei strozzarlo e abbracciarlo nello stesso istante. Lo guardo male ma mi alzo cercando di controllare il tremolio alle gambe sempre più frequente. "Kendra, esci anche stasera?" La voce di Anne mi ricorda che purtroppo non siamo soli e che la situazione può solo che raggiungere livelli più alti di disagio. "La porto a fare un giro", interviene Karl e quel silenzio di sottofondo viene subito sostituito da un fastidioso chiacchiericcio. Credo che le uniche che non hanno emesso un suono a questa notizia siamo io e Davina. Non ho il coraggio di guardarla, ma neppure di dir di no a questo ragazzo misterioso che è piombato nella mia vita come un fulmine a cel sereno. "Ah", gli occhi di Anne cadono su di me fermandosi per troppo tempo. "Non farle fare tardi", aggiunge in un sussurro uscendo dalla stanza.

"Credo che a tua madre non faccia molto piacere". La clinica ora è solo un minuscolo puntino alle mie spalle e io mi sento meglio, decisamente libera.
"A cosa ti riferisci?" Mi guarda per qualche secondo prima di riportare la sua attenzione alla strada. E' impeccabile nel suo outfit nero. Lo è sempre. "Vedermi al tuo fianco", rispondo ovvia e in parte lo comprendo. "Perchè pensi questo? E in ogni caso non è un mio problema", scrolla le spalle. "Sono una sua...paziente", odio questo termine ma non saprei come spiegarlo in altro modo. "E questo dovrebbe rappresentare un problema per lei? Sai quante ragazze escono con i figli dei medici da cui sono in cura?". "Dipende dalla cura", sussurro rilasciando un respiro tremolante. "Forse non è stata una buona idea", aggiungo sicura che non mi abbia sentita, ma quando l'auto si ferma sul ciglio della stada senza alcun preavviso, mi rendo conto di non aver solo pensato queste parole.
"Che fai?" Mi agito quando si slaccia la cintura, voltandosi nella mia direzione. "Cosa non è una buona idea, Kendra?" Assottiglia lo sguardo, sembra stufo o arrabbiato per qualcosa. "Lo sai", abbasso lo sguardo. "Voglio che sia tu a dirmelo", solleva il mio viso con le dita incastrando i suoi occhi con i miei. "Smettila, mi sento ridicola", mi allontano ma lui non si arrende. Ecco, credo che questo è mancato nella mia vita. "Hai ragione, sei ridicola. A vent'anni te ne freghi del parare della gente. Possono pensare quello che vogliono, che si fottano". "Credi che mi freghi il parere della gente?" Sbotto. "Se così fosse stato, avrei già dovuto gettarmi dal quinto piano", lo colpisco in petto non causandogli un minimo dolore. "Ma questo", indico lo spazio fra noi, "è davvero ridicolo", sussulto quando afferra le mie mani e le stringe fra le sue. "E sapresti spiegarmi il perchè, eh?" Assottiglia lo sguardo, stringe la presa ma non fa male. Anzi. "Perchè non ha alcun senso uscire con uno scheletro che cammina", urlo con tutto il fiato che ho in corpo e mi paralizzo quando scopro di star piangendo. "Accompagnami in clinica per favore", scuoto il capo e chiudo gli occhi. Vorrei sprofondare in questo momento, poi sento le sue mani sul mio viso, il suo naso che sfiora il mio e il suo respiro sulle mie labbra. "Sai Kendra, credo che io e te siamo troppo diversi", apro gli occhi di scatto, il cuore in gola, " perchè quello che per te non ha alcun senso, per me ne ha fin troppo", sussurra poggiando piano le sue labbra sulle mie per pochi, pochissimi secondi. Non ho parole, vorrei trovarle ma riesco solo a sorridere mentre il cuore batte sempre più veloce. "Sei davvero bravo con le parole, Karl Hunt", ho caldo. La mia faccia sta per esplodere. "Quindi ora conosci anche il mio cognome", si lecca le labbra e io sono costretta a distogliere lo sguardo. Forse quel bacio è stato solo un modo per calmarmi, forse quel bacio non ha un significato ben preciso, eppure non credo di aver mai sentito la strana sensazione che ancora alberga nel mio stomaco, per altre labbra.
"Il tuo nome e il tuo cognome sono le uniche cose che so di te. Ieri volevo parlare un pò con tuo padre, ma poi sono scappata in camera", ridacchio portandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. "E' fuori per lavoro, tornerà fra qualche giorno", sento ancora i suoi occhi su di me. "Capisco", sospiro fissando la strada. "Vuoi ancora tornare in clinica?" Spalanco gli occhi quando le sue labbra sussurrano queste parole al mio orecchio. Vorrei guardarlo ma rischierei di toccare le sue labbra ancora una volta per quanto è vicino, e questo lui lo sa. Che stronzo! "Spero di non annoiarmi troppo", un piccolo sorriso nasce sul mio viso. "Sei tremenda", scuote il capo, ma vedo sorridere anche lui.

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