Capitolo 18

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La vita è davvero strana. Basta poco per cambiare idea e vedere tutto in modo completamente diverso. Qualcuno direbbe che sono pazza, altri darebbero una spiegazione totalmente diversa a quello che sto facendo. Io preferisco non farlo e godermi questo pancake fino all'ultima briciola. Sono le sei del mattino, tutti dormono ed io ho la possibilità di fare qualcosa, che per me non ha rappresentato la pace per molto tempo, in pace. Se chiudo gli occhi posso ancora sentire il suo profumo su di me. Abbiamo trascorso tantissime ore in quell'auto e non sono riuscita a chiudere occhio per l'euforia. Ho fame, tanta fame come forse non accadeva da troppo tempo e mi va bene. Stamattina non ho sensi di colpa. "Kendra". "O mio Dio", balzo dalla sedia. "Scusami", il dottor Hunt mi guarda e ride. "Non volevo spaventarti, solo che non mi aspettavo di trovare qualcuno in sala a quest'ora". "Non me lo aspettavo anch'io", d'istinto poggio la mia colazione sul tavolo. Su alcune cose devo ancora lavorarci ma non ho fretta. Mancano ancora trecento giorni prima che io debba lasciare questo posto. "Tranquilla, fai pure con comodo. Sono venuto solo a prendere un bicchiere di latte". "Ho quasi finito. Sto per andare via". "Stai andando a fare la terapia?" Prende posto, non mi guarda fingendosi interessato al centrotavola pieno di fiori rossi. "Non sono molto sicura di volerla continuare. Non è andata molto bene la prima volta". "Le prime volte ci preparano a quelle giuste", accenna un sorriso. "Senza sbagliare nessuno migliorerebbe". "Trovo deprimente mangiare attraverso un ago", sospiro. "Non è una cosa molto divertente", scrolla le spalle. "Ma è un aiuto, e a volte bisogna farsi aiutare". "Lei rende tutto molto semplice a parole", sussurro. "A volte i fatti sono molto più semplici delle parole. Loro hanno un gran potere. Le parole feriscono, a volte aiutano. Dipende". "Lo sa che non siamo nel suo ufficio?" Gli chiedo. E' piacevole parlare con lui. "Non ti parlo da medico", alza lo sguardo. "Prima di essere quello sono un uomo, un padre. I medici, gli psicologi non sono dei supereroi che hanno sempre la soluzione adatta. Anche noi sbagliamo. Forse, a noi, hanno insegnato che ci si può sempre rialzare, e che solo una cosa non ha rimedio". "La morte", tremo, ed è la prima volta che ho paura di lei. "Già, è così stronza. Però, in alcuni casi, possiamo scegliere di evitarla". "Solo in alcuni casi", ripeto piano. "Compreso il tuo", aggiunge alzandosi da tavola, lasciandomi di nuovo sola.

Ogni giorno prendiamo delle scelte, ogni giorno dobbiamo prenderle. Ultimamente mi sento davvero instabile in questo ma posso dare la colpa al fatto che, nella mia condizione, sia normale. Sono passate poche settimane da quando la mia mente lo ha accettato, da quando per la prima volta sono riuscita a pronunciare quella brutta parola che rappresenta me stessa. Ora sono qui, distesa su questo lettino, con un ago nel braccio, mentre il dottor Morrison continua a ripetermi quanto sia stata matura a ritornare da lui.  "Oggi qualcuno verrà a farti visita?" "Mio padre", non ho dubbi sulla risposta. Non ha mai mancato un appuntamento e so che sarà presente solo ed unicamente lui. Ho smesso di restarci male per gli atteggiamenti di mia madre il giorno stesso in cui mio fratello è morto e lei ha dato tutte le colpe a me. In parte continuo a sentirmi responsabile, in parte non l'ho mai perdonata per aver pensato che io volessi il male della persona più importante della mia vita. Mia madre è sempre stata molto egoista. Ha sempre pensato solo ed unicamente a se stessa. Mi chiedo come mio padre possa stare con una come lei. Saperlo solo mi spezza il cuore. Non merita tutto questo. "Hai fratelli?"
Mi domanda sorridente. Sorriso che però scompare non appena nota la mia espressione. "Avevo un gemello", guardo alle sue spalle per evitare di cedere. "Oh, capisco", sussurra appena e gli sono grata per non aver chiesto altro. Questa clinica è divisa in più parti. Da quello che Davina mi ha spiegato i primi giorni, ci sono degli edifici sul fondo del giardino che si occupano di altre problematiche. Dipendenze. Non è mai successo che queste parti si incontrassero almeno fino ad oggi.
La sala colloqui è piena. A causa di un problema di tubatura, quella dell'altro edificio è inagibile, ma questo giorno è troppo importante per tutti. Quindi eccomi qui, in fila da due ore per poter incontrare mio padre schiacciata da persone che non ho mai visto prima. Non saprei dire quale sia il loro problema, sembrano tutti abbastanza agitati, irrequieti ma diversi fra loro. Quelle dalla mia "specie" si riconoscono a vista d'occhio. Purtroppo è così. E' fin troppo facile catalogarci. "Ti muovi", qualcuno mi spinge e per poco non cado. "Se ci provi di nuovo ti prendo a pugni", mi volto trovando un ragazzo poco più basso di me fissarmi in cagnesco e sono proprio i suoi occhi a colpirmi. Lucidi, vuoti, rossi. "Levati dal cazzo, mi manca l'aria", con una spinta mi sorpassa e non riesco a dire più nulla. "Perdonalo, l'astinenza rende tutti nervosi". Guardo la ragazza che ha parlato. E' mulatta ed ha dei bellissimi capelli ricci. I suoi occhi invece sono stanchi, contornati da occhiaia enormi. "Astinenza?" "Droga", scrolla le spalle. "Non lo sapevi?"
"Sapevo che venissero trattati anche altri problemi qui". "Droga, alcool, tentativi di suicidio. Accade tutto questo oltre questo castello", ridacchia.
"Che vuoi dire?" Sono talmente presa da questa ragazza da non rendermi conto di essere scalata di almeno cinque posti. "La nostra struttura fa schifo. E' molto vecchia e meno colorata". "Oh, mi dispiace", rispondo stupidamente, cosa che la fa ridire ancor di più. "Oh, tranquilla. Credo che a prescindere da questo anche per voi sia un inferno dover fare qualcosa contro la vostra volontà". "S-si, non è molto piacevole", sospiro. "Mi chiamo Kendra". "Maria, sono italiana. Adottata ovviamente", si indica. "Io nata e vissuta qui. Cioè non qui dentro, a New York". Sono una frana. "L'avevo capito", il suo sorriso, i suoi modi di fare mi ricordano molto Davina. Anche lei era gentile con me, poi, si sa, è cambiato tutto. Non è stata più gentile con me. Non la vedo da molto tempo, sembra sparita nel nulla. "Già, si....scusami. Sono un pò agitata". "Chi non lo è", scrolla le spalle. "Sei qui da molto?". "Quasi due mesi", avanziamo di un passo. Mi guardo intorno come se aspettassi qualcuno. Mi piacerebbe essere con lui ora. "E tu?". "Nove mesi". "E come sta andando?" Chiedo non affatto sicura di aver fatto la cosa giusta. So bene quanto possano essere fastidiose alcune domande. "Non è sempre facile. A volte noi vi invidiamo. E' più facile essere costretti a dover far qualcosa che essere costretti a non doverla fare". "Non posso dire che ti capisco". "Lo so, solo chi l'ha provata può capirlo. Come ad esempio io non capirò mai come fate a non sbavare su una pizza o un piatto di lasagne". "Sei la solita italiana", sorrido. "Beh, credo che si noti", si tocca la pancia. Per me è perfetta, le sue curve lo sono. "Il prossimo", qualcuno urla. "Vai prima tu", mi sorride ancora e quasi mi dispiace sapere che non la rivedrò più.

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