Capitolo 14

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Karl mi tiene aperta la porta del fast food dove abbiamo mangiato. Mi tengo la pancia, non sono più abituata a quel tipo di cucina, eppure al momento i sensi di colpa stanno ancora riposando. "Ti va una passeggiata?" Fra non molto sarà mezzanotte ma non ho alcuna voglia di staccarmi da lui, per questo annuisco e accetto con un sorriso la sua mano. Da fuori potremmo sembrare una normale coppia, ma non è così semplice. New York è sempre bella, a qualunque ora. C'è sempre qualcosa da fare in qualunque posto, strada ti trovi. "Possiamo sederci un pò?" Chiedo dopo una decina di muniti. Il dolore allo stomaco aumenta e non posso permettermi di star male proprio in sua presenza. "E' tutto ok?" Mi si avvicina accovacciandosi sulle ginocchia. Potrei restare su questa panchina per tutta la notte per quanto sono stanca. "Si, mi servono solo pochi minuti", mento. Sono momenti come questo io cui credo di star sbagliando tutto con questo ragazzo. Prima o poi anche lui se ne renderà conto, spero solo che quel giorno io sarò in grado di tollerare l'ennesimo abbandono. "Tranquilla", poggia le mani sulle mie gambe accarezzandole dal basso verso l'alto. "Non ho nulla di meglio da fare", accenna un sorriso. "Sono sicura che non sia così", il mio sorriso è diverso. Impacciato, nervoso, malinconico. Karl è la rappresentazione della giovinezza, della voglia di vivere i propri anni appieno. Restare al mio fianco significa rinunciare a questo, significa dover affrontare episodi simili con una frequenza allucinante. "Di cosa hai paura, Kendra?" La sua domanda mi prende in contropiede, mi mette di fronte realtà che spesso cerco di ignorare. La paura mi accompagna da mesi ma non saprei darle un solo nome, un'unica spiegazione. "Karl, cosa....che domande...", la sua voce mi blocca. "Prima di ogni esibizione faccio un sogno, un incubo per essere precisi", scuote il capo, lo sguardo perso. "Sono in una stanza buia, da solo. Sembra tutto normale, tutto tranquillo, poi qualcosa cambia. Io cambio. Inizio a prendere a pugni le pareti che mi circondano fino a spaccarmi le mani. Non posso più suonare, sono ricoperto di sangue, mi sale l'angoscia, poi mi sveglio e ho una paura matta di mostrarmi su quel palco e sbagliare tutto, come ho sempre fatto nella mia vita". I suoi occhi tornano quelli di sempre, incrociano i miei completamente rapiti dalle sue paure. "Ora tocca a me?" Presso le labbra fra loro. Ho capito il suo gioco, e trovo strano sorridere per una cosa simile. Karl sa come ottenere le cose, e lo fa nel modo giusto. Un modo di cui forse ho sempre avuto bisogno e che non ho mai provato. "Esattamente", sgrano gli occhi quando afferra le mie gambe e se le avvolge attorno al suo corpo. "Siamo più comodi così", ammicca capovolgendo la situazione. Noi due su quella panchina, io a cavalcioni su di lui, imbarazzata fino alle punte dei capelli, lui sornione e soddisfatto del risultato ottenuto. "Parla per te", borbotto poggiando il mento sulla sua spalla. Non può guardarmi in queste condizioni. "Non lamentarti sempre principessa. Sono tutte orecchie", con le braccia avvolge la mia schiena stringendomi a se, forse in questo modo riuscirò a parlare. "Ho mille paure", avere il suo adoro ad un millimetro dal naso mi aiuta. "Una dovrò affrontarla domani". "Domani?" Si sposta solo per potermi guardare in faccia. "La proposta di tua madre, la visita per il peso e.....devo prendere una decisione. So già cosa mi diranno. E' evidente che non ci sono stati miglioramenti", mi guarda così profondamente da provocarmi un vuoto dentro. "E qui parte la mia seconda paura, quella che mi porto dietro da un anno", lui mi aspetta e non smette mai di guardarmi. Vorrei nascondermi ancora, ma non servirebbe a nulla. Mi sto mettendo a nudo con questo ragazzo, sto rischiando grosso ma le parole vanno da se, e per una volta non penso alle conseguenze. "Con la morte di mio fratello è come se......fossi morta anch'io", dirlo fa male e bene nello stesso istante, con la stessa potenza, "per me nulla aveva più senso. Passavo le giornate nella nostra stanza, nel suo letto. Mio padre cercava di parlarmi, di farmi capire tante cose a cui ancora oggi non riesco a dare un senso. Mio fratello era tutta la mia vita, e per mesi ho continuato a pensare che chi nasce nello stesse istante devo morire insieme. Quella notte non la dimenticherò mai e mai riuscirò a cancellare dalla mia mente la paura che ho di vivere e andare avanti senza di lui". "Hai smesso di mangiare da quel momento?" Non leggo pena, ne giudizio nel suo tono, ma solo voglia di capire. "Si", sussurro. "Vedere il mio aspetto peggiorare mi faceva sentire meglio, mi fa sentire più vicina a lui. E' un discorso malato, lo so. Ma non mi reputo normale da molto tempo ormai. L'ho accettato". "E credi che lui l'abbia accettato?" La sua fronte sfiora la mia. "Forse si, forse no. Non posso saperlo fin quando...". "Fin quando...cosa?". Afferra la mia nuca, gli occhi ridotti a due fessure. "Io..i-io, non lo so", abbasso lo sguardo. "Mia madre mi odia, credo che mi ritenga responsabile di quello che è successo quella notte". "Io non so cosa sia successo quella notte", sfiora il mio viso con le dita, "e nemmeno mi serve saperlo per dirti che potrebbe odiarti tutto il mondo Kendra, tutto. Eppure io, guardandoti negli occhi, so che troverai un motivo, solo uno per lottare e capire che questo mondo del cazzo sarebbe meno stronzo con te". "Karl", chiudo gli occhi poggiandomi al suo petto. Mi lascio cullare dalle sue braccia grandi e calde nelle quali è troppo facile perdersi. "Sto amando il mio nome sempre di più", ridacchia accarezzandomi la schiena. "Piace anche a me", con il naso sfioro la sua guancia ritrovandomi vicina alle sue labbra così belle ed invitanti. "Non sai quanto mi faccia piacere questa cosa", ammicca baciando prima la punta del mio naso, poi le mie labbra. Ci guardiamo, ci stringiamo per minuti, forse ore, nel centro di New York, nel bel mezzo della notte durante la primavera più bella di sempre.

"Guarda che sono mancina, riesco ad aprire la stanza con questa mano". Siamo tornati al centro e Karl mi ha seguita fin fuori la stanza. Non posso dire che questa cosa non mi rendi nervosa, ma non mi infastidisce come forse sarebbe successo qualche settimana fa. "Lo so, volevo solo capire dove si trovasse la tua reggia", faccio scattare la serratura per poi voltarmi verso questo ragazzo che sta portando fin troppo scompiglio nella mia vita. "In effetti non posso lamentarmi, è una bella stanza", scrollo le spalle guardandolo di sottecchi. "Se lo dici tu", si morde le labbra. "Buonanotte Karl", mi alzo sulle punte lasciandogli un bacio sulla guancia. Sto per entrare in stanza quando mi afferra dai fianchi. "Così saluti Tom, anzi meglio di noi", un attimo e mi ritrovo in paradiso. Le sue labbra premono sulle mie schiudendosi al suo volere. Mi aggrappo alle sue spalle, ai suoi capelli. Lui mi abbraccia forte rimettendo apposto tutte le parti rotte di me. Vorrei di più, non ho mai desiderato tanto un uomo quanto desidero lui, e sono sicura che in un'altra vita io e Karl avremmo fatto l'amore la prima notte. Ma questa è un'altra storia, una storia in cui io non posso permettermi di andare troppo oltre, una storia in cui devo trovare la forza di fermarmi prima che sia troppo tardi. "Meglio se...meglio se vai", ho il fiatone. Karl è messo peggio e non si fa problemi a farmelo capire. Eppure mi rispetta, lo ha sempre fatto. Un ultimo bacio, una carezza. Quello di cui ho bisogno. "A domani, Kendra". La promessa più bella e la manterrà. Ne sono certa.

E' la quarta volta che faccio pipì nell'arco di un'ora. Non è la prima volta che vengo sottoposta ad una visita simile, eppure stavolta è diverso. Non ho chiuso occhio per tutta la notte pensando alle parole di Karl. Pensando ad un motivo che credo di aver trovato ma che ho paura di nominare. Nella vita mi sono fidata di un solo uomo, ho messo la mia vita nelle sue mani. Quell'uomo era mio fratello, la mia metà. Ero sicura che sarebbe rimasto per sempre al mio fianco, e oggi so che lui continua ad esserci seppur in modo diverso. Lo sento, lo percepisco e mi viene da piangere. "Rogers", il dottor Morrison mi accoglie con un sorriso che non riesco a ricambiare. "Buongiorno", sussurro stringendo le gambe. Non è possibile. Mi sento una vecchietta con problemi di vescica, e non è il caso di aggiungere altra benzina al fuoco. "Allora, pronta per questa ennesima sfida?" Mi siedo, le parole vanno da se. "Dottor Morrison, a prescindere dai risultati io voglio...provarci", stringo le mani lottando contro il senso di colpa. Oggi voglio vincere io, oggi voglio vivere. "Provare cosa, Kendra?" Aggira la scrivania sedendosi al mio fianco. "A guarire", lo dico con un groppo in gola. Sto lacrimando ma non mi sento persa come quando prendevo anche solo dieci grammi. "E' una bellissima notizia", poggia una mano sulla mia spalla. "Sono felice per te, Kendra". "Anch'io", lo sussurro anche se, forse, saprei urlarlo. La visita è andata come tutti immaginavano. Il mio peso è qualcosa a cui non voglio pensare, eppure fino a qualche giorno fa ne sarei stata appagata. I valori delle analisi sono disastrosi, le mie misure paragonabili a quelle di una bambina. Domani inizio la terapia, domani passerò molto tempo a letto con un ago infilato nelle vene. Domani è martedì, ed io ho chiesto a mio padre di non venire a farmi visita. Spero mi ascolti. Ho appena finito di pranzare, vorrei tornarmene in stanza ma non riesco ad ignorare l'unica persona che mi ha accolta in questo inferno. "Hey, ciao". Davina è seduta in salone con altre ragazze. Ho saputo che ora è tornata nella sua vecchia stanza a tre. Sono l'unica solitaria in questo posto, ma mi va bene. Più che bene. "Kendra", il mio nome lascia le sue labbra come un insulto o forse non pensava che potessi rivolgerle la parola. "Anche tu hai fatto la visita questa mattina?" Dondolo sui piedi, nessuna mi chiederà di restare. "Come tutte", torna a fissare il suo cellulare. Mi odia e non posso darle torto. "E come è andata?" Ci provo ancora non aspettandomi nulla. "Bene", poi si volta verso le altre ed iniziano a parlare come se non esistessi. Credo che questo uccida le persone, l'indifferenza. Forse dovremmo smetterla di aspettarci che gli altri ci comprendano, dobbiamo smetterla di sperare in cose inesistenti. Io e Davina non siamo state migliori amiche, anzi la sottoscritta era abbastanza scettica a riguardo. Eppure, mentre me ne torno in camera penso a quanto sia facile per gli altri andare via senza mai guardarsi indietro.Vorrei che Karl fosse qui, e non vorrei avere così tanto bisogno di lui come invece sta accadendo. Mi stendo sul mio letto enorme ripensando alla decisione presa. Kevin riderebbe di me. Io che non ho mai permesso a nessuno ti tendermi una mano, io che non ho mai accettato nulla, io che ho sempre ottenuto tutto con le mie forze fino a toccare il fondo. Io che ho fatto una promessa e che ho appena smesso di mantenerla. Io che ho visto il buio del tunnel sperando di non trovare la luce. Io che non vorrei più credere in nulla eppure ancora ci spero. Io che non mi sono mai innamorata eppure ci sto riuscendo. "Non dovevi lasciarmi Kevin. Sei stato uno stronzo", un'altra lacrima, la millesima che verso da quando sono qui, bagna il mio viso. Sto per addormentarmi quando due colpi alla porta mi fanno sobbalzare. Scendo dal letto e a piedi nudi raggiungo la porta. Cerco di asciugarmi il viso ma quando lo vedo il sorriso torna da se. "Spero ti piacciano gli horror". Karl, un dvd, due birre ed io che ho smesso di contare i giorni che dovrò passare qui.

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