Capitolo 1 • Nuovo inizio

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C'era sempre qualcosa di magico nelle stazioni degli autobus, in quelle dei treni, negli aeroporti e in qualsiasi posto di arrivi e partenze. L'aria che sferzava i capelli delle persone, l'odore pungente di gomme consumate per le continue frenate e la gente sempre di fretta che calpestava le pozzanghere spruzzando di acqua sporca qualunque cosa avesse intorno.

Mi rilassava quell'atmosfera.

In posti del genere si incrociavano migliaia di storie diverse ogni giorno, ogni ora e ogni singolo attimo. Rifugiandomi lì, con un libro in mano, avevo imparato inconsciamente a studiare le persone che mi passavano davanti, le loro espressioni, i movimenti del loro corpo.

«Sì, sì Kevin sto arrivando... Ho fatto tardi lo so, ma uno stagista ha fatto un casino con le scartoffie...» Una giovane donna sfrecciò davanti a me, con il telefono schiacciato fra la guancia e la spalla e un migliaio di fascicoli e fogli stampati nelle sue braccia.

A quell'ora di sera, in qualunque posto del centro di Boston ti trovassi, le strade brulicavano di uomini e donne che tornavano a casa da lavoro, sfiniti e desiderosi di tornare a casa dopo una lunghissima giornata. Alzai lo sguardo su di lei, ma i miei occhi non la videro davvero. Con le cuffie alle orecchie che mi isolavano dal mondo e un libro aperto posato sulle gambe incrociate, aggrottai la fronte e mi resi conto per l'ennesima volta di quanto fosse geniale quell'autrice.

Il vecchio telefono che avevo nella tasca cominciò a vibrare. C'erano davvero poche persone che avrebbero potuto cercarmi, così non mi presi la briga di leggere il nome sullo schermo. Già sapevo quello che avrei sentito.

«Evelyn, mia madre ti aspettava a casa non meno di un'ora e mezza fa.» La voce dall'altro capo del telefono sembrava quasi rassegnata: non riuscivo nemmeno a contare le volte che gli avevo sentito dire quella frase. «Ti consiglio di sbrigarti, se vuoi ancora trovarti qualcosa nel piatto.»

Breve e conciso riattaccò, senza nemmeno darmi il tempo di rispondere che avrebbero potuto anche non aspettarmi. Sapevo però che avrei dovuto obbedire, mio malgrado.

Chiusi il libro con un tonfo e lo infilai nella larga e confusionaria borsa di velluto scura. Sospirai e saltai giù dal muretto, rischiando di finire addosso ad una giovane ragazza che correva per non perdere l'autobus.

Mentre una nuova canzone partiva, cominciai a camminare.

***

«Evelyn! Evelyn... Sto parlando con te.» La sua voce mi squillò nelle orecchie, tagliente come mille piccoli aghi conficcati nelle mie orecchie.

Costrinsi me stessa a riscuotermi e a posare lo sguardo sulla mia madre affidataria, che già mi stava fissando infastidita, con le labbra ridotte ad una linea e leggermente piegate da una parte. Fin dal primo momento in cui l'avevo vista, mi ero accorta di quel terribile tic nervoso che le faceva storcere la bocca in quel modo.

«Sì?» chiesi semplicemente, ignorando le occhiate sue e del marito.

«Domani comincerai scuola.»

«Perché me lo dici?» Non riuscii a trattenermi, risultando sicuramente scortese e insolente. «Lo so da sola.»

Katherine Spencer chiuse gli occhi, cercando di mantenere la calma.

Prima che potesse rimproverarmi, inforcai con noncuranza un pezzo di bistecca e borbottai uno «Scusami» sommesso.

Una risata ottenne la mia attenzione: «Le buone maniere le hai lasciate a Seattle?».

Posai subito lo sguardo su Bella Spencer, che mi stava guardando portandosi una mano davanti alla bocca come per impedirsi da sola di ridere. Per quanto la odiassi, non potevo negare come fosse bella di nome e di fatto. Lunghi capelli color miele le circondavano i morbidi lineamenti del viso e i grandi occhi scuri dando quasi l'impressione di trovarsi davanti ad una graziosa bambola di porcellana.

ELYRIA • L'ultimo soleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora