30. Non ti ho guardata, ti ho ascoltata arrivare

4.1K 305 125
                                    

Lo riconoscerei tra milioni di persone. Mi è bastato sollevare lo sguardo, e subito, senza alcuno sforzo, l'ho trovato. Accigliato eppure luminoso, straniero nei suoi posti, intraducibile come il suo vero nome, e, come il suo nome, eco di un altrove.

Mi aspetta rivolto alla folla, orientato controcorrente. Sì, mi sta aspettando, Alessandro Aslan. Lo capisco dal solo gesto che si concede, ora che mi ha vista arrivare, sospinta dal passo svelto sfoderato per non tardare al nostro primo, quanto insolito, appuntamento.

Il fianco poggiato al marmo della parete dell'atrio, le mani abbandonate nelle tasche dei jeans e gli auricolari nelle orecchie, si sfila gli occhiali da sole e porta l'indice alla bocca.

"Buongiorno", gli dico con il petto che duole. Davanti a lui reagisco ormai così: Aslan mi colpisce dentro.

Non risponde subito. Fatta scivolare la bacchetta degli occhiali tra le labbra, si limita a porgermi una delle cuffiette.

La stringo forte: "Vuoi condividerle con me?". Lui annuisce, insieme sorride.

"Accetto volentieri" lo assecondo, curiosa. Poi, ammutolisco. Non me ne sono accorta sinora e ho continuato a parlare. Allora lascio che mi conduca per mano dentro l'ascensore che, primo dei tre, giunge a terra. Tace, Aslan, eppure è come se non smettesse di dire, di raccontare.

Dopo di noi, si infilano nella cabina altre dieci persone. Lui si frappone loro con il suo fisico asciutto, seminascosto sotto una maglietta bianca abbondante. D'istinto, lo chiamo a me e, uniti, ci ritiriamo all'angolo.

"Scusate, potreste farmi spazio?". Un uomo distinto, impettito nella sua camicia inamidata, il nodo della cravatta perfetto, avanza con la ventiquattr'ore spiegata. I presenti, costretti ad accoglierlo, si compattano, tra qualche sospiro e diversi, antipatici mugolii. Noi ci guardiamo, stretti l'uno contro l'altra. La frenesia che, a ogni alba, pervade l'animo dei frequentatori del Quartiere degli Affari non può contagiarci, almeno non questa mattina. E io non bado a nient'altro se non al suo respiro, che mi solletica una guancia, mentre finalmente Aslan mi rivolge la parola.

"Le senti?" sussurra, il timbro caldo, mentre libera i capelli che mi sono rimasti infilati nel colletto, e aspetta. Resto in ascolto con le palpebre abbassate: "Le sento, sì. Meravigliose". Sono note, evoluzioni di accordi a un pianoforte. Il componimento classico mi trasporta in un'altra dimensione, dove siamo soli, io e Aslan, dove la calca dei lavoratori che ci sta trascinando con sé, pronta a sciogliersi tra gli uffici dell'intero palazzo all'avvio dei turni, già non esiste più.

"Non ho bisogno che tu traduca, stavolta. Le note sono note", rido a tempo. C'è armonia su quei tasti, armonia che tintinna.

"Non ti ho guardata, ti ho ascoltata arrivare, Rossella. Volevo provassi anche tu...", mi accarezza la nuca. I suoi anelli contro la mia pelle. A quel tocco sensuale, riapro gli occhi.

"Da bambino provavo e riprovavo questo pezzo, ma non ero portato per il pianoforte". Aslan racconta, con quel suo profumo buono, e io mi perdo. "L'insegnante ha presto perso le speranze e si è trovato un nuovo allievo. Un giorno mi ha chiesto di non presentarmi più a casa sua".

"Che crudeltà, ferirti senza garbo" esclamo, intenta a sistemargli il ciondolo da cui non si separa mai. Mi sembra di non aver fatto altro per tutta la vita: curare l'uomo che amo, curare Alessandro Aslan.

Da una guancia passa all'altra, la sua barba mi sfiora il mento. L'imbarazzo di lasciarmi andare davanti a degli estranei mi impedisce di guardarmi attorno. Gli resto addosso, paonazza in volto.

"Non è andata proprio così", scuote lo chignon. "Sapevo che sarebbe successo. Vedi, io e mia madre non potevamo permetterci uno strumento tanto costoso, il maestro mi aveva messo a disposizione il suo, pensando che fossi spinto da una vocazione indomabile. Gli avevo spiegato che volevo diventare come Fazil Say, che allora era un brillante esordiente. Ma ricordo anche di avergli confessato la verità, cioè che, se fossi diventato famoso, mio padre avrebbe letto di me sui giornali internazionali. Cercavo una rivincita e, per riuscirci, mi sarei appigliato a qualsiasi professione. Il maestro, l'ultimo giorno, mi ha preso tra le braccia e mi ha detto: lavora sul tuo talento non su un'ambizione, perché spesso le due non sono la stessa cosa".

Crisantemi fritti a colazioneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora