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Mi stava aspettando.

Bello come il sole.

Con la schiena contro il cofano della sua auto sportiva, una gamba appoggiata sulla ruota e lo sguardo concentrato sullo schermo del telefonino che teneva tra le dita affusolate.

Indossava un pantalone a sigaretta beige, una felpa verde scura da cui si vedeva l'orlo di una camicia bianca. I suoi capelli mori erano spettinati, fin troppo lunghi, e le sue labbra erano arricciate nel tentativo di mantenere la calma.

Era agitato: si mordeva il labbro inferiore e ticchettava con un dito sulla cover del telefono.

Mi sistemai la borsa sulla spalla e abbassai lo sguardo sul mio corpo prima di uscire dall'ascensore che mi aveva portato al parcheggio sotterraneo.

E quando mi decisi a raggiungerlo, lui se ne accorse prima che potessi aprire bocca. E sorrise, mi sorrise come un bambino sorride davanti alla prima nevicata della stagione.

«Come siamo eleganti.» lo punzecchiai, studiando il suo corpo possente davanti a me. «Devi andare per caso ad un appuntamento galante?» chinò il capo, scuotendo la testa e ghignando silenziosamente.

«Prendiamo la mia macchina, vieni.» la distanza tra di noi si allungò quando si spostò per aprirmi la portiera della sua auto. Presi posto al suo interno e mi beai del profumo esotico che mi invase improvvisamente che mi riportava alla mente così tanti ricordi.

Lo guardai aggirare l'auto per poi prendere posto dietro il volante e far partire il motore, cambiando subito marcia per uscire dal parcheggio – ormai abbandonato.

Ero uscita prima del previsto, eppure a quell'ora erano già tutti nelle proprie case.

Il movimento della mano che fece per immettersi nella corsia, con il palmo aperto che faceva ruotare il volante, mi fece perdere ancora di più la ragione. Soprattutto quando scorsi un piccolo sorrisetto soddisfatto all'ombra dei suoi lineamenti marcati.

Se non era un Dio greco, che cos'era di preciso Noah Mancini?

Restò in silenzio per tutta la durata del viaggio, se non quando mi limitavo a fare domande dettata dalla curiosità di quell'improvvisa uscita serale. Cosa avremmo mangiato? Dove saremmo andati? A che ora saremmo ritornati a casa? In più avevo un mal di piedi impressionante con quei tacchi vertiginosi e di camminare non ne avevo chissà quanta voglia.

Parcheggiò in uno spazio occupato da un camioncino che vendeva panini, hot dog, ali di pollo fritte e di tutto e di più.

Mi leccai le labbra e mi voltai di scatto verso di lui, che aveva girato le chiavi e stava osservando proprio la destinazione che aveva raggiunto. «Muoviti, ho fame.» mi diede una spintarella scherzosa per farmi uscire, poi scese dalla vettura.

Lo seguii come un cane segue il proprio padrone e mi ritrovai con il mento quasi appoggiato sulla sua spalla sinistra mentre decidevo cosa prendere per cena. «Non è che possiamo rimanere qui per anni. C'è altro in programma stasera.» gli scoccai una gomitata al fianco e poi indietreggiai.

Sì, ero permalosa.

«Per me un Burrito, delle ali di pollo e una porzione di patatine.» Noah scosse la testa, sghignazzando, nel sentire il mio ampio ordine. «Tu?» chiesi, più per far conversazione che per altro.

«Un hot dog e  delle patatine fritte.» l'istinto mi diceva di avvicinarmi, di appoggiare il capo sulla sua spalla tonica e di bearmi di quel secondo di riposo. Ma la ragione mi diceva di non fare cose assurde, e accorciare le distanze era una cazzata bella e buona.

E mentre la fila piano piano scorreva e ci avvicinavamo al camioncino, mi fermai a guardare le coppie e le famiglie che avevano preso posto in quei pochi tavolini da picnic di legno che erano stati posizionati in direzione del piccolo parchetto vicino. Tutti troppo concentrati per capire di avere accanto una celebrità dello sport.

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