7.

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Pranzare insieme a lui come se nulla fosse mai successo fu la cosa più strana mai successa in vita mia, ma non potei dire che non fosse stato un pasto piacevole.

Avevamo parlato di ciò che avevamo fatto durante quei cinque anni di lontananza: mi aveva spiegato come avesse conosciuto Jane e il rapporto che avevano e mi aveva persino raccontato come aveva fatto ad entrare nei Los Angeles Rams.

Chi avrebbe mai pensato che Noah Mancini sarebbe rimasto nella sua patria grazie al football dato che al liceo aveva detto più volte che non avrebbe accettato nessuna borsa di studio per lo sport?

«Ho sentito che hai firmato un contratto fruttuoso per la tua carriera.»

Alzò lo sguardo su di me, appoggiandosi con la schiena alla sedia su cui aveva preso posto.

«Hai sentito?» mi morsi la guancia. «Quindi eri a Los Angeles un anno fa.» inclinai la testa verso di lui e incrociai le braccia sopra il tavolo, guardandolo con sfida.

«E anche se fosse?»

«Che hai fatto? Sei scappata perché sapevi che io sarei tornato?» arricciai il naso, chinando la testa sulla tazza di caffè che avevamo ordinato.

«Ti credi davvero così importante?» le sue dita circondarono la ceramica e lentamente le sue labbra ci si appoggiarono sopra.

«Posso considerarmi così?» feci schioccare la lingua contro il palato, volgendo lo sguardo verso la grande vetrata a qualche metro dal nostro tavolino.

«Me ne sono andata perché ho ricevuto un incarico importante a Las Vegas, non per te.» nah, bugia.

«Ho dei dubbi.» scossi la testa, alzando gli occhi al cielo. «Ma se non vuoi dirmi la verità, non ti obbligherò di certo.» puntai i miei occhi chiari sui suoi e scorsi un luccichio.

«Sai cosa sono andata a fare a Las Vegas?» riappoggiò la tazzina sul piattino e poi si sporse verso di me, imitando la mia stessa posa - con le braccia incrociate. «Ho organizzato il torneo di basket più importante della città.»

«E dovrei crederti?» scrollai le spalle e sorrisi nel sentire il suo tono ammiccante.

«Puoi controllare.» concessi, ritornando a guardare la strada dietro la vetrata del locale che avevamo scelto.

«È vero.» ammise quando la pagina di Google gli diede conferma. Alzai le sopracciglia, facendolo sorridere. «Devo farti i miei complimenti allora, ho amato alla follia anche la festa successiva alla vittoria.» la mia espressione cadde sullo sconcerto.

«Tu eri lì?» lui annuì. «C'ero anche io, perché non ci siamo visti?» domandai, sorpresa.

«C'erano troppe persone. Anche se avessi saputo che tu fossi stata lì, sarebbe stato complicato trovarti.» scrollai le spalle e finii il mio caffè prima di guardarlo mentre studiava l'ambiente che lo circondava come aveva sempre fatto al liceo e il suo sguardo finì su un gruppo di ragazzini con il pallone da basket in mano.

«Sai ancora giocare?» chiesi di punto in bianco, cogliendolo di sorpresa.

«Dici sul serio?» sorrisi flebilmente. «Non ho fatto altro per quattro anni. Se sono un portento nel football dopo tutto quel tempo che non lo praticavo, nel basket sono diventato il migliore.» mi leccai le labbra, lanciandogli uno sguardo ardente.

«Ti sfido allora.» accorciammo ancora di più le distanze. «Io e te, uno contro uno.» guardai quelle due fossette e mi chiesi se sarebbe tornato tutto come un tempo, se noi due saremmo tornati ad essere gli stessi.

«Dici coach contro allieva?» scossi la testa, puntandogli l'indice laccato di verde contro la sua felpa bianca.

«Dico come giocatori normali.» le nostre reazioni sembrarono coordinarsi perché nel momento in cui mi morsi il labbro inferiore, lui fece lo stesso movimento e la cosa mi provocò una scarica di adrenalina impressionante.

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