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I NOAH'S POV I

Nick entrò in giacca e cravatta, come era solito presentarsi. Sempre con la sua andatura sicura e affascinante, sempre perfetto in ogni cosa che faceva.

Mi sarebbe piaciuto essere lui, almeno per una volta.

Una carriera di successo, un portamento sempre elegante, una raffinatezza che in pochi avevano. E sicuramente non gli mancava una famiglia, anche se non me lo aveva mai detto.

Diventare come lui probabilmente era stato il desiderio più grande che mi aveva accompagnato negli ultimi mesi dentro il carcere, quando l'unica cosa che possedevo era la maleducazione con cui venivo sempre trattato da tutti.

Quando si sedette davanti a me, prendendo il posto del suo amico e collega Jonah, si allentò il nodo alla cravatta e sorrise spontaneamente.

Non capivo perché avesse deciso di incontrarmi nel mio orario di visite e non durante il suo orario di lavoro, ma sinceramente non lo volevo sapere.

«Ci siamo.» scrollai le spalle. «Pensi di accorciare di nuovo i capelli oppure li lasci così per il processo?» mi portai alla testa le mani ammanettate per accarezzarmi il capo.

«Li taglierò, di nuovo.» lui annuii, appoggiando sul tavolo una gruccia con su un meraviglioso abito nero coperto da un telo di plastica.

«Vorrei che indossassi questo all'udienza.» lo avrei riconosciuto anche da lontano: era il vestito che tenevo nell'armadio per le grandi occasioni e per cui non avevo ancora mai avuto l'evento giusto per indossarlo.

Solo una persona avrebbe potuto farglielo avere.

«Dove l'hai preso?»

Domanda stupida.

«L'ha portato Allyson. È ancora qui, aspetta che tu dia il consenso per poter entrare.» lo vidi deglutire, mordersi il labbro inferiore e scrutarmi a fondo. «Che cos'è che ti spaventa?» chinai il capo.

«Non voglio farle del male.» sussurrai, pizzicandomi con le unghie le cuticole per nascondere l'ansia.

L'avrei voluta vedere più di qualsiasi altra cosa al mondo, ma avevo resistito per tutto quel tempo. Non le avrei permesso di soffrire, vedendomi in queste condizioni, solo a pochi giorni dal processo.

Ci saremmo visti allora, era meglio.

«Le hai già fatto del male, tutte le volte che non l'hai voluta far entrare.» lo sapevo, cazzo se lo sapevo. Ma sapevo anche che lei mi avrebbe capito. Lei mi capiva sempre, anche quando non parlavo. «Perciò fargli male oggi che cambia quando ha sofferto per mesi a causa tua?»

Evitai di rispondergli, di guardarlo, di parlare. Evitai persino di respirare se questo sarebbe bastato a nascondermi.

Mi sentivo un mostro, mi sentivo colpevole, mi sentivo cattivo. Ero marcio dentro.

Avrei davvero lasciato Allyson vedere come ero ridotto?

I lividi sul volto erano ancora presenti, ma chiaramente molto più tenui rispetto a qualche giorno prima. Per non parlare delle condizioni smunte e deboli del mio corpo. Non ero più il Noah di un tempo, probabilmente non lo sarei più stato.

E non avrei permesso ad Allyson di vedermi, almeno non dentro un cazzo di carcere. Era fuori discussione.

«Non la vuoi vedere?» annuii, deglutendo e ignorando il peso che gravava sul mio povero cuore ammaccato. «Le manchi molto però.» ebbi il tempo di sorridere, ma non di rispondergli.

La stanza in cui eravamo si ricoprì di un tetro silenzio; nessuno dei due continuò il discorso per non rovinare l'atmosfera di "felicità" che ci stava circondando.

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