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Arrivammo a casa in un batter d'occhio.

La situazione peggiorò nel minor tempo possibile.

Noah si chiuse in bagno, sbattendo con tutta la forza che possedeva la porta, e impedendomi di entrare per stargli almeno vicino - anche solo in silenzio.

Sentii l'acqua del lavandino scorrere per diverso tempo e quando capii che non sarebbe uscito tanto presto, mi sedetti sul pavimento con la schiena e la testa premute contro il muro e il bordo della gonna tra le mie mani in un futile gioco per impiegare il tempo e l'ansia.

Passai davanti la porta del bagno almeno una mezz'oretta buona senza che nemmeno me ne accorgessi, poi finalmente uscì dal bagno con i capelli sulla fronte umidi e qualche gocciolina d'acqua lungo le guance. Segno che si fosse lavato la faccia.

Camminò come un automa in completo silenzio e senza degnarmi di un misero sguardo, raggiunse la cucina e si sedette sul tavolo dopo aver bevuto un intero bicchiere d'acqua. I piedi poggiavano sulla sedia di fronte a lui, le sue gambe erano divaricate e il ciuffo di capelli castani gli copriva il volto.

Mi appoggiai a qualche metro da lui contro la cucina, appoggiando le mani sul piano da lavoro, e rimasi immobile a guardarlo per un tempo indeterminato. Forse un'ora buona.

Quando però mi stancai di rimanere in piedi, comprendendo che non avrebbe aperto bocca, decisi di allontanarmi. Finché non sarebbe stato lui a volermi parlare, era inutile persino provare a estorcergli qualcosa di rilevante.

Uscii in terrazzo, recuperando dalla borsa una sigaretta e l'accendino. Passai qualche minuto a cercare di liberare la mente, ma più mi forzavo di non pensarci più quell'uomo dagli occhi di un colore diverso ricompariva davanti ai miei occhi come la scena di un film.

Quando il calore della sigaretta raggiunse le mie dita, mi costrinsi a ritornare in cucina e a sperare che la voglia di parlare gli fosse di colpo apparsa.

Era ancora seduto sul tavolo quando varcai l'ingresso della stanza, ma questa volta i piedi non puntavano più il cuscino della sedia. Le sue gambe penzolavano avanti e indietro, ma rimanevano comunque divaricate.

Mi avvicinai a lui con cautela, spostai la sedia e mi misi al suo posto mantenendo la distanza di sicurezza. Non ero preoccupata per una sua azione istintiva, sapevo che non mi avrebbe fatto del male, ma per tranquillizzarlo necessitava dei suoi spazi e lo avevo capito bene con il tempo.

«Fa male questo.» sussurrò.

«Cosa?» dissi di colpo. «Cos'è che fa male?» ritentai, abbassando leggermente la voce per non farlo alterare.

«Che alle persone a cui tieni venga fatto del male... per colpa mia.» lo guardai fisso in volto, cercando i suoi occhi. «È la cosa più brutta.» la sua voce era un flebile rumore. «Perché ogni cosa che faccio si dimostra essere sempre una cazzata?»

Rimasi completamente in silenzio, a distanza, ferma a guardarlo. «Perché io penso sempre di fare la cosa giusta e poi mi si ritorce tutto contro?» mi leccai le labbra, cercando di trattenere il respiro per non fare troppo rumore. «C'è qualcosa di fondo che non va.»

Restammo altri minuti in silenzio: io non sapevo che dire e lui non sapeva se approfondire il discorso.

«Perché per tutti il mondo è andato avanti e invece a me il passato mi sta ancora torturando?» la sua voce si ruppe. Feci qualche passo avanti, inserendomi tra le sue gambe e appoggiando le mani sudate sulle sue ginocchia. «Sono una persona buona, non ho mai fatto del male a nessuno.» un magone mi salì all'altezza della gola.

«E io lo so questo...» mi schiarii la voce, ingoiando l'amarezza. «I tuoi amici lo sanno.» una goccia d'acqua cadde sul dorso della mia mano e lui fece subito per toglierla, cercando di non farmela vedere. Non era semplice acqua. «E sono sicura che i tuoi avvocati troveranno il tuo alibi.» una seconda lacrima mi cadde sul dorso della mano, ma lui non fece nulla per nasconderla.

Per Sempre TuoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora