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Avevo una sorpresa per lui e sapevo quale sarebbe stata la sua reazione.

Ma nel frattempo lo guardavo mentre, seduto su quel van, aveva la testa chinata verso il basso e sembrava canticchiare una canzoncina dentro di sé.

«Dove stiamo andando?» scrollai le spalle, lanciando uno sguardo a Jonah e a Shoupe, che erano stati incaricati di seguirci.

«Aria fresca. Le piacerà e ci stanno aspettando.» sorrisi, cercando di guardare fuori da quei miseri spifferi che avevamo intorno.

«Chi ci sta aspettando?» non mi guardò in faccia, nemmeno una volta da quando eravamo chiusi lì dentro.

«La sto aiutando ormai da cinque mesi. So ciò che potrebbe farla felice dopo tutto questo tempo dentro una cella.» Shoupe mi guardò terribilmente male, ma ne fregai della sua subdola opinione.

«Ti sei documentato?» Noah alzò lo sguardo su di me; sul volto la sua solita espressione neutra.

«No, mi ha aiutato la tua ragazza.» ammisi, incastrando i miei occhi azzurri nei suoi. «Sai, capelli corti e biondi. Incinta e terribilmente simpatica.» mi fulminò, seduta stante, come se avessi peccato nel nominarla. 

Ma non mi rispose.

Mezz'ora più tardi il pulmino della prigione si fermò a destinazione e Shoupe, seguito da Jonah, si alzò per aspettare che la portiera venisse aperta. Mi mancava l'aria e non ero una persona claustrofobica, figuriamoci quanto angusto fosse quel veicolo.

Scendemmo da lì e restammo bloccati a guardare il maestoso edificio che si piazzava davanti ai nostri occhi. Noah sembrò fremere per l'emozione, lo riconobbe all'istante. Mi voltai verso Shoupe, facendogli un cenno nella direzione del mio paziente. «Le manette.» non disse nulla, squadrò me e poi Noah alle mie spalle. «Gliele rimetterò io stesso prima di farlo uscire da lì.» e indicai lo stadio.

«Dottore, lei capisce. Se uscisse da quella porta senza...» fu Jonah a parlarmi, interrompendo ogni possibile schizzata di Shoupe prima che si trasformasse in una lite tra adulti.

«Non uscirà.» gli slacciarono le manette dai polsi solo dopo il cenno di assenso di Noah e ci seguirono in tutto il percorso che facemmo per prendere posto nell'ultima scalinata dello stadio dei Los Angeles Rams.

Noah si sedette lentamente, osservando tutto ciò che non aveva potuto vedere per sette mesi, poi sorrise dolcemente. «Immagino che questo sia il suo posto.» ma io restai in piedi, a guardare quella bellezza con occhi meravigliati.

Bellezza che avevo visto solamente in televisione.

«Ho pensato che ritornare qui dopo tutto questo tempo ti avrebbe in qualche modo aiutato.» mi girai verso di lui e lo vidi osservare le persone che giocavano nel campo.

«Chi sono?» con un cenno del capo indicò proprio la distesa di erba verde.

«Non li riconosce?» arricciai il naso, aprendo la mia ventiquattr'ore per afferrare un foglio. Osservai quella calligrafia femminile e aggrovigliata. «Sono tutti i tuoi amici del liceo, i tuoi compagni di squadra.» sentii un tuffo al cuore nel vedere i suoi occhioni neri sbrilluccicare.

Mi schiarii la voce prima di continuare a parlare. «La tua ragazza mi ha fornito un po' di nomi.» alzai lo sguardo sul campo, ma poi lo riportai su quel foglio. «Numero ventidue, William Smith. Numero trenta, Theo Carlisle. Numero dicianno...»

«Mason Mitchell.» continuò lui.

«Penso che tu abbia capito.» ripiegai perfettamente il foglio, appoggiandolo sulle mie gambe per facilitarmi, poi lo infilai dentro la mia borsa.

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