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I NICK'S POV I

Mi sistemai il colletto della camicia, mi guardai nello specchietto retrovisore della mia automobile e poi presi il cellulare dal sedile del passeggero.

«Va bene, sarò lì per cena alle otto. Non un minuto in più, non un minuto in meno.» poi scesi dalla vettura.

L'edificio che si stagliava davanti ai miei occhi nella sua forma abituale e incolore mi stava chiedendo di entrare, di mettere piede dentro quel luogo per aiutare coloro che ne avevano più bisogno.

Perciò entrai, salutando tutti coloro che avevo iniziato a conoscere da circa tre mesi, e seguii le pratiche per rintanarmi nel mio ufficio e iniziare la mia giornata di lavoro. La guardia carceraria – quella che io preferivo – dopo i vari colloqui con i primi carcerati mi portò un caffè freddo con tanto di caramello, così lo invitai a prendere posto davanti alla mia scrivania.

«Come vanno le cose?» scrollai le spalle, assaporando la mia bevanda preferita.

«A parte il dover lavorare in un carcere?» lui annuì, sorridendo divertito. «Ho problemi con la mia compagna, mia figlia è in uno stato catatonico il più delle volte e mia suocera non fa che invitarmi a casa sua per cena.» ammisi, appoggiandomi comodamente contro lo schienale della mia sedia girevole.

«Ah dai, pensavo peggio.» sghignazzai, guardando l'orologio al polso che portavo. «Chi aspetti?» mi morsi le labbra, poi ingoiai un sorso abbondante del mio caffè freddo.

«Mancini.»

Il mio miglior collega si alzò di scatto dalla sedia, si strofinò le mani e poi si lasciò andare in un sorriso a trentadue denti. Eppure sembrava spaventato.

«Ti auguro buona fortuna allora.» incrociai le dita davanti alla sua vista, poi lo salutai per aspettare l'inizio del mio terzo colloquio della giornata.

Mi sentivo sotto pressione ogni volta che quel ragazzo entrava nella mia stanza e la cosa non era cambiata dal primo giorno che l'avevo conosciuto.

Incredibile a dirsi dato che avevo almeno una ventina di anni in più.

Noah Mancini entrò nel mio ufficio scortato come sempre da due guardie carcerarie e indossava la sua solita tuta arancione sudicia e sporca di quello che presumevo essere fango. Si accomodò sulla sedia davanti alla mia scrivania con la sua solita flemma e abbassò subito la testa, evitando il mio sguardo colmo di speranza.

Presi, a qualche centimetro dalle mie mani, il registratore e con un solo click misi in moto quello strano oggetto.

«Dottor. Nick Jones, quattordicesimo colloquio con il paziente Noah Mancini.» solo allora appoggiai quella tecnologia davanti al mio corpo, osservando le due guardie alle spalle del ragazzo. «Come va oggi signor Mancini?» 

Ci fu un minuto di silenzio.

Forse più di un minuto; il mio sguardo vagava sui lineamenti del volto di quel ragazzo e i suoi occhi invece sembravano fulminare i suoi pantaloni arancioni con tutta la rabbia del mondo.

«Tanto non parlerà.» ammise il mio collega, alle sue spalle, alzando gli occhi al cielo.

«Non parla con nessuno.» si unì l'altro, dondolandosi sulle punte dei piedi.

Lasciai perdere i due, perché infondo erano due ragazzini e non i soliti cinquantenni che sembravano sapere tutto quello che riguardava il mio lavoro. Che era, tra l'altro, molto diverso dal loro!

Presi dalla mia ventiquattr'ore diversi oggetti che mi aveva gentilmente prestato il padre di Noah e alcuni suoi amici, appoggiandoli nella superfice di tavolo che ci divideva.

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