Giugno, a Londra, era un po' come gli altri mesi primaverili: faceva fresco, pioveva e il sole non si vedeva per settimane. Pian piano però le temperature stavano iniziando ad alzarsi. Nei primi di Giugno, quell'anno, pioveva ininterrottamente da giorni. Tutti, all'interno dell'orfanotrofio, si lamentavano del maltempo - soprattutto i bambini che volevano andare in giardino a giocare -, ma a me, sinceramente, non interessava più di tanto. La pioggia mi era indifferente. Potevo benissimo dire di essermi abituata alla pioggia costante nella capitale inglese.
Rimanevo spesso seduta alla finestra della mia stanza a guardare le gocce che lentamente scivolavano sul vetro mentre in strada i passanti tornavano velocemente a casa riparandosi sotto giacche e ombrelli. Era rilassante guardare il mondo che andava avanti mentre io rimanevo a guardarlo attentamente. Ogni persona che scendeva dall'auto si riparava sotto ombrelli di ogni genere e colore, da quelli che portavano allegria a quelli monotematici.
Londra, in generale, la definivo grigia per via dei palazzi spesso di quel colore e per le nuvole che sempre occupavano il cielo, però ritenevo che molti londinesi cercassero di rendere la loro città il più colorata possibile, utilizzando giacche e accessori dai colori accesi. Mi piaceva lo spirito degli inglesi, ma io non mi ritenevo tale. Non appartenevo né a uno Stato, né ad una città e se mai fosse esistito, un Paese di cui io facessi parte, dovevo ancora andarci. Londra non era di certo la mia città: racchiudeva ricordi e dolori troppo grandi per definirmi parte di quel posto. Non avevo una casa né una famiglia.
Ogni volta che le cose diventavano complicate, pensavo che non avevo nulla da perdere perché mi mancava tutto quello che io credevo essere la base di una vita stabile ed equilibrata, ma allo stesso tempo sentivo che potevo perdere tutto, anche se praticamente non avevo nulla. Mi sentivo talmente trascurata da chiunque avesse deciso della vita delle persone. Mi chiedevo in continuazione il motivo per il quale mi fosse capitata quella vita. Perché non potevo nascere nei quartieri ricchi di qualche città americana? Perché proprio Londra? Perché proprio i miei genitori dovevano morire in quell'incidente?
La mia vita era piena di domande a cui nessuno poteva rispondere, domande che dovevo accettare essere senza risposta. E forse era meglio così: certe cose non volevo venirle a sapere. Preferivo rimanere nell'ignoto piuttosto che capire il motivo per il quale la mia vita avesse preso quella piega.
Tutto si muoveva intorno a me, anche mentre me ne stavo seduta sul gradino della porta che dava sul giardino dell'orfanotrofio. Ascoltavo il fruscio rilassante della pioggia che cadeva sulle strade con velocità e inspiravo l'odore da essa emanata. Quello era il profumo che io associavo a Londra: era piacevole, ma allo stesso tempo doloroso. Londra per me era così: dolore e ricordi neutrali, che non erano né amari, né gioiosi.
Sentivo le macchine sfrecciare per le strade, ascoltavo i clacson di coloro che erano fermi in coda nelle vie londinesi più affollate. Udivo il silenzio imbarazzante che si era creato tra me e il mondo, quella piccola differenza che mi staccava delle altre persone, quella piccola sfortuna che era capitata proprio a me. E in un certo senso l'avevo accettato. Avevo accettato che io non ero come gli altri.
Mi alzai lentamente stringendomi dentro la felpa che indossavo. Faceva abbastanza freddo, ma non mi importava. Iniziai a camminare per andare al centro del giardino. La pioggia cadeva velocemente intorno a me mentre mi godevo quell'attimo di tranquillità.
Avevo passato gli ultimi venti giorni a pensare a quel maledetto sogno, a stressarmi con le immagini che erano ancora ben impresse nella mia mente. Io e Amelia avevamo smesso di parlarne, eppure qualcosa dentro di me mi diceva che ancora dovevo raccontarlo a qualcuno. Solitamente sapevo chi era più adatto ad ascoltarmi, ma quella volta avevo paura della reazione di quest'ultimo. Perché sì, credevo che Amelia avesse ragione: dovevo parlarne con Will, non per renderlo partecipe degli orribili sogni che facevo su di lui, ma perché necessitavo di un suo parere e di un suo consiglio. Probabilmente avrebbe detto che era solamente un sogno e forse avrebbe avuto anche ragione, ma qualcosa di molto macabro, dentro di me, affermava il contrario. Ogni volta che incontravo Will per i corridoi o quando passavamo del tempo insieme sentivo lo stomaco aggrovigliarsi su se stesso. Sentivo questo blocco che spesso mi faceva perdere la fame.
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The Anchor Of Destiny
Novela JuvenilOrfanotrofio: un posto triste e monotono, che lega il passato col presente. Ma è così anche quando hai degli amici con cui condividere la tua tristezza, il tuo sarcasmo, le tue battute e le tue preoccupazioni? È così anche quando scopri fatti di cui...