Capitolo 34

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Entrai nell'ufficio di Kaitlyn, ma non c'era nessuno. O era uscita dall'edificio, o era andata a cercare i bambini. L'ufficio era buio, con le tende tirate e il caminetto spento. All'apparenza sembrava solamente una stanza abbandonata, ma sapevo che in realtà non era così. Era troppo strano vedere quell'ufficio privo della presenza della governante. Qualcosa non andava. Qualunque cosa stesse succedendo, non era nulla di buono. Mi diressi verso la finestra spostando le tende da davanti di essa tentando di far entrare un po' di sole all'interno nella stanza. Ero molto spaventata, dovevo ammetterlo. Per la prima volta nella mia vita stavo affrontando qualcosa che sapevo essere davvero pericoloso e, per quanto gli anni precedenti avessi tentato di provare un minimo di adrenalina, nulla era paragonabile a quel momento. Sentivo l'inquietudine, l'ansia, pervadere piano piano tutto il mio corpo.

Guardai fuori dalla finestra cercando con lo sguardo qualcuno che conoscevo, qualcuno che si trovava al sicuro. Nulla da fare.
Non feci tempo a girarmi che la porta alle mie spalle di chiuse violentemente. Qualcuno mi afferrò per la spalla e mi spinse con forza contro l'uscio chiuso appoggiando poi una mano sulla mia gola per tenermi ancorata al legno retrostante.

Il mio aggressore era decisamente robusto, alto, con bicipiti pompati. Indossava un passamontagna nero che mi impediva di vedere il suo volto. Aveva una giacca di pelle nera, logorata sulle maniche e sul colletto. Però gli vedevo gli occhi. Scuri come l'oceano in piena tempesta, colmi di odio e vendetta. Chiunque lui fosse, non aveva certamente buone intenzioni.

«Fammi indovinare...» sussurrò con voce roca spingendomi ulteriormente contro la porta. «Hilary Sullivan, giusto?»

«Come fai a sapere il mio nome?» borbottai affaticata per la forte presa che avevo sul collo. In quel momento, però, capii tutto. C'erano solo due motivi per i quali quell'uomo conosceva il mio nome: o conosceva i miei genitori, o conosceva Kaitlyn. «Conosci Kaitlyn?»

«Ma che brava, vuoi un Oscar per aver capito chi diavolo sono?»

«Non so chi sei. Non ti ho mai visto in tutta la mia vita.» lo guardai con un cenno di sfida nello sguardo.

«Non ti aspettare che io ti dica il mio nome, piccola mocciosa inutile. Sono più furbo di quello che pensi.»

«Ah sì?» lo fissai attentamente. «Be', mi dispiace illuderti, ma gli Oscar sono dei premi del mondo del cinema e almeno che questo non sia il film dell'anno, nessuno di noi due può vincerne uno. Vedo che hai ragione, sei molto furbo.» spiegai sarcastica.

«Non sei nella posizione di ribattere, Hilary. Non scherzare. Sappiamo entrambi che a nessuno, in questo momento, frega realmente di cosa sono di preciso gli Oscar.»

«Siano.» lo corressi cercando di sorridere. Avevo un allucinante dolore nel punto in cui lui mi stringeva il collo. Aveva una presa salda, che mi impediva di scappare. Mi fissava con sguardo attento e vendicativo. Qualsiasi cosa Kaitlyn gli avesse fatto, lui voleva fargliela pagare per bene. Purtroppo, c'ero andata io di mezzo.

Mi guardò confuso. Non aveva capito che lo stavo semplicemente prendendo per il culo per farmi sembrare meno grave la situazione. Dovevo illudermi che tutto stava andando bene, dovevo comportarmi come se fossi stata davanti a Kaitlyn finché qualcuno non mi veniva a cercare o finché non mi veniva in mente un modo per liberarmi dalla sua presa.

«"A nessuno, in questo momento, frega realmente di cosa siano di preciso gli Oscar."» affermai.

«Finiscila!» urlo staccandomi di poco dalla porta per poi spingermi nuovamente verso di essa più violentemente di prima. Premette con più forza il suo palmo caldo contro il mio collo fissandomi attentamente negli occhi. Sentivo il suo fiato sul viso dalla tanta vicinanza. Mi metteva paura, quell'uomo, e mi terrorizzava il fatto che conoscesse Kaitlyn. «Fallo ancora e la prossima volta ti uccido, piccola mocciosa inutile.» mi avvertì mormorando contro il mio orecchio.

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