Capitolo 2

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Firdaus Rochowicz, ovviamente, aveva dovuto sedersi proprio di fronte a me, accanto ai miei fratelli, mentre la sottoscritta ai fianchi dei suoi vezzosi genitori. Terence era accomodato a capotavola.

Nel corso della cena, notai con rabbia che i miei fratelli fossero eccezionalmente affascinati da Firdaus, al punto che intavolavano con lui ogni sorta di discussione, anche afferente ad argomenti che prima di allora non avrebbero trovato interessanti, come «Hai sentito che hanno spostato il Campionato Mondiale Superbike?» oppure «Sarebbe meglio che si investisse sui terminali di scarico, non trovi?» o «Che cosa ne pensi della Kawasaki, Firdaus? Davvero? La penso come te, amico. Tra l'altro, detto tra noi, preferisco l'Honda. Ha motori affidabili e durevoli.»

Sebastian, nel frattempo, ce la stava mettendo tutta per dirottare l'asse della conversazione lontano dal motociclismo.

L'ingresso di Firdaus sembrava aver offerto loro una motivazione più che sufficiente per rimanere seduti là. 

Loro potevano dirsi fortunati. Io invece ero ancora motivata ad andare via.

«Rendi non mi dici niente del college?» Domandò Terence. «So che questo è il tuo primo anno e che sei già una studentessa modello. Tua madre non fa altro che parlarmi delle tue capacità.» Mia madre le inventava di notte.

«Mi piace il college, solo che devo ancora ambientarmi. Essere matricole è sempre un po' scomodo.»

«Ah, smettila,» Nathan levò gli occhi al cielo. «Cerchiamo di farti integrare, ma per tutto il tempo cammini con una scopa nel-»

«Nathan!» Mia madre lo bloccò giusto in tempo. «Non fare il maleducato con tua sorella.»

Suonate le undici di sera, la Cenerentola che era in me già si stava preoccupando di non farcela per la mezzanotte a presenziare alla festa di Sydney, quando, approfittando della reputazione da studentessa di serie A, ebbi la meravigliosa intuizione di beneficiarne.

«Sono proprio stanca morta,» dissi. «E domani ho anche tutte le lezioni di mattina. Ci vorrebbe proprio un bel sonnellino.»

Terence mi graziò. «Se devi andare, va', non darti pensiero. Del resto, hai già fatto molto con l'esibizione al piano.» Avevo suonato Satie fra un pasto e l'altro perché mia madre potesse darsi arie di direttrice.

Subito mi levai in piedi. «Davvero?»

«Sì, certo. O no?» Terence lanciò uno sguardo d'intesa a mio padre. 

Con evidente rassegnazione,  papà si trovò a dover assimilare la brutta notizia che consentire alla propria figlia di crescere significava anche allentarle il cappio al collo. 

Prima che potessi finalmente mettere un piede fuori dalla sala, mamma mi domandò: «Con quale macchina andrai, Rendi?»

«Mamma, scherzi? Viviamo a New York. Prenderò un taxi.»

«Un taxi? Da sola? Oddio!»

«No, non da sola...» Che stavo dicendo? «Verrà a prendermi un'amica...»

«Ti viene a prendere col taxi?»

«Sì, dov'è il problema?» Stavo palesemente farneticando. «Poi io torno a casa e lei anche. Tutto qui.»

«Uhm...» per i successivi cinque minuti io e coloro presenti alla trance meditativa di mia madre rimanemmo in silenzio a tentare di indovinarne i pensieri. Infine sussurrò: «... Allora, se è così, puoi andare.»

Corsi fuori senza guardare in faccia a nessuno, con i miei tacchi piuttosto bassi, dall'apparenza innocente, come del resto ero io, almeno prima di mercanteggiare con Sydney un buon partito con cui avrei perso la verginità quella stessa sera.

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