Capitolo 20

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La mattina dopo, mi svegliai in una camera che non era la mia.

C'era un alto controsoffitto a cassettoni, vi penzolava al centro un lampadario. Le tapparelle erano abbassate, le pareti verniciate scure per tre quarti e vi passava traversandole la boiserie lucidata nera. Di fronte al capezzale stava una dormeuse verde salvia in ciniglia dallo schienale semicoperto da abiti maschili.

Una libreria immensa, riempita anche di alcuni vinili, si rampicava su tre mura, e tuttavia non c'era spazio per tutti i libri presenti: per quella ragione la giacenza se ne stava per terra accatastata a colonna.

Un caminetto di marmo bianco affacciava frontale il letto, reggeva un enorme specchio un po' ingiallito, ottocentesco, vigoroso e tutto d'un pezzo, come l'uomo che doveva riflettere tutti i giorni, dalla cornice cesellata a motivo vittoriano.

Ciò che mi sorprese di più erano le grate alle finestre: quando vi batteva sopra la luce del sole, dall'altro lato della camera si rifletteva una parete scaccata.

Mi alzai dal letto indolenzita, per qualche secondo convinta che avrei vomitato, però stranamente voltandomi trovai sul comodino un bicchiere d'acqua e un blister di pillole e accanto un biglietto: "Bevimi, Alice." e sotto: "Se bevi da un bicchiere su cui non c'è scritto «veleno», non ti sentirai male." Dio, anche la sua scrittura era veloce, confusionaria.

Alla fine, mi sentii davvero meglio, e pensai di dare un'occhiata a quella che doveva essere necessariamente la camera di Firdaus.

Aveva un grammofono a tromba, una tromba preziosa di ottone trattato, con piatto in ceralacca e cassa in mogano, spagnolescamente vecchio, ovvio, ma ammodernato con un porta-USB che consentiva di collegarvi il lettore mp3 o il telefonino. Doveva leggere i dischi da 78 giri, forse anche quelli da 33 e 45. O forse anche i cd. C'era un disco posato là vicino e delle puntine sostitutive.

Il grammofono era esposto su un comò; d'un tratto, nel primo cassettone vidi che vi spuntava sinistro lo scrimolo consunto di una fotografia. Non volevo ficcanasare, seriamente, ma era pur sempre vero che mi sarebbe piaciuto motivare le stranezze caratteriali di Firdaus ripercorrendone l'infanzia a quanto pareva molto travagliata.

Vinta dalla curiosità, aprii il cassetto. Come se nel frattempo vi fosse nato all'interno un intero giardino, mazzi spampinati di fotografie sbocciarono estirpandosi dalle radici, traboccando oltre le rovine dei tarli e aprendosi a me come rose fresche di potatura. Non potevo non guardarle.

Ce n'era una datata 24 anni prima di un Firdaus in fasce che se ne stava corrucciato davanti alla fotocamera.

Solo guardandolo allora, si sarebbe potuta profetare per deduzione, senza alcuna speciale veggenza, che il bambino sarebbe divenuto un uomo splendido, soprattutto perché in quelle foto avrebbe dovuto avere la pelle aggrinzita dei neonati, la lanugine, e un aspetto simile a quello di un mostriciattolo, invece no, niente intaccava la sua capacità di ridurre alla venerazione chiunque lo osservasse.

La seconda era datata 17 anni prima. Aveva soltanto sette anni, sedeva davanti a una torta e stringeva i manici di due forchette, mentre dietro si intravvedeva fugacemente una donna cui assomigliava tantissimo, che lo stava fissando sorridente.

Non avevo mai visto una più bella di lei. Era tanto figa da scaturirmi invidia e dall'espressione tanto bonaria da sopirne una buona parte. Ne avevo vedute di ragazze attraenti alla Big Apple, o anche dalle parti dell'estremo oriente europeo, eppure nessuna era in minima parte accomunabile a lei, che della bellezza poteva definirsi la personificazione.

La donna si trovava solo in questa foto.

Poi ce n'erano altre che lo ritraevano mentre risolveva un cubo di Rubik, a pesca con il padre, dondolante su un'altalena, una spalla gettata sullo schienale in una posa capricciosa, per terra nella fanghiglia, poi costretto in una divisa da marine, pettoruto, la faccia coperta dal berretto, le maniche un po' risvoltate.

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