Capitolo 12

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«Sta ancora dormendo?» Domandò Sebastien al mio fianco.

Ce ne stavano a osservare dallo stipite Firdaus rigirato malamente nel letto che dormiva il sonno di un ghiro. Non sapevamo che cosa fare.

Dormiva di preciso da venti ore. Erano le undici di sera. Tra le dieci del mattino e le sette del pomeriggio, Terence aveva fatto avanti e indietro dalla dépendance e non era riuscito a svegliarlo, del resto Firdaus aveva solamente strizzato un occhio, scosso la testa e azzerato qualsiasi possibilità di rimettersi alla ragione.

I miei genitori avevano colto l'occasione per invitare a cena Terence e dopo a bere qualcosa con loro due e alcuni colleghi. L'uomo prima di uscire aveva avvertito me e Sebastien (Nathan stava dedicandosi a una massiva spesa di vinili presso la Manhattan Avenue di Greenpoint perché l'esercente ne aveva messi in vendita alcuni a due dollari fino a mezzanotte) di chiamarlo immediatamente in caso il figlio si fosse svegliato. Ma questi non dava segni di essere prossimo alla veglia.

«Potremmo picchiarlo.»

«Questa è la ventesima volta che lo proponi,» si spazientì Sebastien, «e la risposta è sempre NO.»

«Che ne dici delle spugnature con l'acido?»

«Provaci e ti ammazzo, Rendi.» Sebastien controllò l'orario. «Mi sa che vado a farmi una dormita. Domani le lezioni cominciano presto.»

Stanca di stare in piedi andai a sedermi su una poltroncina in capitonné accanto al letto di Firdaus.

Avevo letto che era piuttosto normale dormire così a lungo se si mischiava un sovradosaggio di Ativan a uno di alcool, sempre se in generale c'era qualcosa di normale nell'azione stessa, cioè nel buttare giù pillole su pillole e lasciarle fluttuare nello Chardonnay.

Tutto sommato, fu di magra consolazione il fatto che sarebbe potuta andare assai peggio di così; c'erano state persone che con quella combo micidiale avevano rischiato l'overdose, perfino la morte, e altre erano state portate d'urgenza al pronto soccorso per un arresto cardiaco. I disastrosi effetti collaterali dipendevano per gran parte da caratteristiche fisiche, da quanta acqua bevevi (scoprii che era fondamentale annaffiarti lo stomaco), e principalmente da quanto fossi avvezzo a quel genere di farmaci.

Mi misi a fissarlo. Quello di Firdaus era un corpo sinuoso, quattro volte il mio, longilineo e forzuto. Lui se ne stava ancora volto al sonno con la mano sotto al cuscino, ora abbassatasi fino alla sua mandibola; i capelli arricciati ne coprivano parzialmente il viso, scoprendovi alcuni indizi come le lentiggini, il triangolino di disidratazione in mezzo al limitare del labbro superiore, l'infossatura delle guance, il taglio sensuale e puntuto degli occhi.

Schiacciava un sonno profondo. Per la prima volta i muscoli facciali se ne stavano rilassati esentandosi dal contrarsi con forza sulle ossa.

Alla buon'ora, il sonno di Firdaus si sciolse. Lui abbassò e sollevò le palpebre come facevano gli uccellini appena iniziati al volo che muovevano alla cieca le loro alette spennacchiate. Solo che le loro alette spennacchiate non erano di certo due occhi talmente traslucidi da sembrare vacanti come vetro soffiato, con ciglia nere e fitte, da incantatore di serpenti.

«Cavolo, ce ne hai messo di tempo,» mi alzai. Già stavo per chiamare Sebastien, che voleva essere informato anche al costo di farsi svegliare, oppure Terence, che voleva la stessa cosa di Sebastien, ma Firdaus mi bloccò con un solo grugnito. «Cos'hai? Non ti senti bene?»

Si svegliò soffertamente e capii dal suo cipiglio che non mi avrebbe risposto. Era letargico, ancora sotto sonnolenza, e continuava a capovolgere gli occhi febbricitante rivelandovi la calotta biancastra della cornea. Ci mise un po' per schiarire la nebbia che stava condensandosi nel suo sguardo.

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