Capitolo 18

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Dopo quanto accaduto con Firdaus, entrambi prendemmo le distanze. Evitavo di circolare troppo nei corridoi dell'università o nelle stanze dei miei fratelli o dovunque potessi trovarlo. Solo che non potevo evitare di sentirlo nominare da Sydney.

«Lui è così bello, il più bello, il Bello per eccellenza.» «Vuole stare con me, suppongo.» «Ma hai notato come lo contemplano quelle stupide sventole?» «Perché non ci accostiamo alla tavola di Firdaus con la scusa di parlare con Seb?» «Adesso le ammazzo tutte.» «Rendi, Santo Cielo, sei ancora più frigida da quando hai picchiato quello stupido di Malcolm.»

Così mi toccava farle da uditrice, come sempre, ma quella volta con la consapevolezza che l'avevo tradita. Mi odiavo per questo. Non avrei mai profetato di cacciarle uno sgambetto simile. Nessuna amica lo profeterebbe mai. Non le avevo portato rispetto e adesso non c'era niente di peggio che raccogliere le sue confessioni speranzose non confessandole che era venuto il momento di ammortare la speranza.

«Rendi,» Nathan entrò in camera dopo un toc toc rapidissimo. Osservò con sgomento uno dei miei grossi tomi di Psicometria. «Non è che puoi prenderti una pausa? È mezzanotte.»

«C'è qualcosa che non va?»

«Devo andare da una parte. Con te.»

«Perché "con me"?»

«Mi hanno tolto la patente ieri.»

Mi alzai dalla sedia facendone sbattere lo schienale contro la testa del secretaire. «Cosa ti hanno tolto, scusami?»

«Abbassa la voce, cazzo,» si impauriva solo al pensiero che i nostri genitori lo scoprissero. «Guida in stato d'ebbrezza. Spero che con un po' di soldi fra qualche settimana me la restituiscano. E poi questo non è il punto.»

«Non può farti da taxista Sebastien?»

«No, non è qui,» fu molto vago, ma la sua espressione angosciosa lo tradì. «Mi accompagni?»

Non potevo ignorare l'indizio d'implorazione che macchiava la sua voce di basso. «Al diavolo, okay, ma facciamo in fretta.»

La mia fantastica Super SUV Urus blu elettrico sfrecciò per i boulevard newyorkesi finché non svoltò dalla Terza Strada West alla Thompson Street e parcheggiò davanti a una stazione di ricarica per i veicoli elettrici.

L'ingresso della cloaca dove Nathan mi stava portando era semioscuro e al di sotto del livello del marciapiede, vi si accedeva percorrendo delle scale dalla ringhiera in ferro con la testa del corrimano laccata in oro. C'erano appoggiate al muro la brochure di una gipsoteca presso Dumbo e una lavagnetta su cui scritti messaggi in codice diretti alla clientela abituale.

Feci un passo indietro, così mio fratello si bloccò in mezzo alla gradinata. «Non mi piace questo posto.»

«Rendi, rimani qui fuori,» Nathan indicò il ristorantino appropinquato che cucinava vegetariano. «Va' a mangiare qualcosa.»

«Ho cenato da un pezzo. E non voglio farti andare da solo.»

«Vengo subito, Miranda,» okay, era davvero una cosa seria se pronunziava il mio nome per intero. «Non seguirmi.»

Ovvio che lo avrei seguito invece. Dopo qualche minuto, in cui immaginai scenari terrificanti a sufficienza da persuadermi che ne valeva la pena, divorai le scale e varcata la soglia andai razzolandolo.

Davanti a me si aprì uno spazio sviluppato in lungo, dalle pareti in lampasso veneziano rosso, con le applique fissate sulle colonnine a muro, un grosso bancone da una parte e una serie di tavolinetti e causeuse dall'altra. Un caminetto arabesco in legno di perastro reggeva il maestoso quadro di una colombella. Assomigliava al nightclub di Quei bravi ragazzi di Scorsese.

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