Capitolo 27

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Uscii dal college mentre spioveva e fermai un taxi per spassarmela a Times Square, questo sacrosanto incrocio un tantino kitsch che i pendolari adoravano.

Erano due settimane che Sydney e io non eravamo più niente.

Neanche le nostre leggendarie scaramucce da piccole soverchiavano questo record o ci si avvicinavano soltanto.

Se all'inizio dell'università mi avessero detto che avrei continuato questo percorso senza di lei, che avremmo imboccato due strade diverse stando ben attente a non trovarci intersezioni, avrei preso a scompisciarmi dalle risa.

Invece eccomi qua, con la fronte inchiodata al finestrino di un taxi, a sviscerare i recenti saldi dell'Haute couture sui maxischermi LED.

Da sola.

Lasciai la mancia e scesi ramingando per i magazzini. L'aria aspersa di pioggia sembrava condensarsi sopra le teste dei cittadini, che avanzavano sulla pozzolana incappucciati o brandendo ombrellini trasparenti.

Tutte le volte che i miei pensieri si incupivano mi avveniva di ricordare Charlotte Stevenson. Come si stava svolgendo la sua esistenza? Le importava ancora che mi vestissi firmato? Di rado ripensava alle sue spacconerie?

Era incredibile come Charlotte mi avesse preso a stimmate. Lei sarebbe sempre stata il marchio impresso a fuoco su questo bestiame biondo che a distanza di anni ancora le latrava dietro vari anatemi, o una bella battuta con il ferro contro il corpicino intonso di una schiavetta punita. Punita come lo ero stata io. Per mano sua.

«Oh, cavolo, scusa, scusa,» un bagarino mi colse di traverso rovesciandomi un delizioso marocchino sulla camicetta a righe.

«È tutto a posto, non preoccuparti,» accettai i suoi tovaglioli con il solo risultato di ingrandire la macchia.

«No, davvero. Mi dispiace un sacco.» Posò la tazzina su un idrante, quindi scrisse il suo numero su un biglietto e me lo tese. «Se vuoi, quando sei libera, possiamo sentirci. Ti offro qualcosa da bere, e la prossima volta non addosso.»

Annuii intenerita, ma non troppo, poi mi rintanai nello stanzino da bagno di un café chantant con l'intenzione di darmi una sistemata. Be', ottenni l'effetto contrario.

Pagai una bottiglietta d'acqua per raccontarmi di non aver usufruito dei servizi a scrocco e dopo dieci minuti a piedi trovai un provvidenziale negozietto sulla 1560 di Broadway, che vendeva a prezzi stracciati delle magliette.

Quasi tutte avevano stampati sopra i monumenti della metropoli; ne comprai una che ritraeva una subretta seminuda con un microfono in mano.

Fu allora che, allo stremo, tirai dritta verso il Museo vicino e mi rimpiattai in una cabina Peep-O-Rama, che proiettava affascinanti flapper discinte, mentre spandevo lacrime amare.

Per che cosa piangessi, peraltro ironicamente davanti a queste donnone superbe, non riuscivo a dedurlo.

Mi facevo un po' pena.

Sei patetica, Miranda. Che ti prende?

Se una persona di buon cuore fosse accorsa a domandarmi che cosa non andasse, non avrei saputo risponderle, suppongo.

Sentivo solo che non fosse per Sydney. Non più. Era una sensazione così forte che solo Firdaus poteva c'entrarci qualcosa.

La famosissima Times Square Ball che tutti i capodanni veniva issata in cielo si trovava in questo museo ed era composta da veline azzurrognole, viola e arancioni. Io ne presi una scrivendoci il mio intimo desiderio, come era usanza fare.

"Per l'anno nuovo vorrei..."

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Prima che capitasse la stagione del nevischio, ogni anno io e i miei fratelli prenotavamo in un maneggio pedemontano sfiziose gite equestri.

Glimpse of usDove le storie prendono vita. Scoprilo ora