Capitolo 14

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Kuldsuu era un termine estone che significava «bocca d'oro.»

La gente dell'Estonia la utilizzava intendendo, esattamente allo stesso modo degli anglosassoni che utilizzavano «well-spoken,» una persona abile alla retorica, la quale discuteva di tutto, avanzava sempre considerazioni convenzionali, condiva con la sua sapienza conversari di ogni genere.

Io invece a un kuldsuu, a una bocca d'oro, davo un'accezione diversa, meramente, superficialmente, terribilmente fisica. La mia accezione di kuldsuu, in altre parole, era quella di una bocca splendida, carnosa, rossa come le marasche, con le labbra divise al centro delle prominenze da una curva che ne ratificava la pienezza, la freschezza; e sembrava che un dito vi pigiasse sopra per non farle rivolgere inviti licenziosi.

La mia accezione di kuldsuu, in altre parole ancora, era la bocca d'oro di Firdaus. Una bocca però incapace di discutere civilmente, avanzare considerazioni convenzionali, condire con un briciolo di riflessione i discorsi. O di allietare anziché ferire. E io la odiavo per questo.

La stavo ammirando, mentre pronunziava «Ci sto» a un'iniziativa che aveva proposto Nathan.

La stavo ammirando, mentre Nathan affermava: «allora grande, è fatta. Rendi, va' a prepararti.»

La stavo ammirando, mentre quella stessa bocca si curvava in sorrisetto, mostrando ai lati due fossette, e diceva: «Miranda, svegliati.»

Dannazione!

«Sì, cosa?»

«Io e Firdaus andiamo ad Harlem a sentire il pianista blues che piace a te. Quello che assomiglia a Nelson Mandela. Aspe', come si chiama? Louis? Lewis? Levi...?»

«Landon! Landon Armstrong!»

«Sì, quello. Datti una mossa.»

Non potevo assolutamente ricusare l'invito. Landon Armstrong era a dir poco un portento. Pochi della Big Apple lo conoscevano, ma a me non interessava: io coglievo in lui una genialità senza pari eppure difficile a scovarsi di primo acchito.

Più tardi, ci trovammo ad Harlem, sulla Centoventicinquesima. Il quartiere era sempre stato uno dei miei preferiti. C'erano le bancherelle, le esibizioni amatoriali, i palcoscenici di rincalzo, le custodie delle chitarre vacanti eccetto che per pochi dollari, i messicani, i senegalesi, i Cherokee, artisti garzoni della bohème, poeti di genio, vecchi alcolizzati, scrittori di censure erotiche, ragazze che facevano la vita. Le roulette dei apaches si intravvedevano fuori dalla strada, le luci statali vi baluginavano sopra.

E in quel fermento artistico di pionieri ambiziosi, in quella miseria affascinante che rinunziava a qualsiasi forma di risanamento, in quel caleidoscopio urbano di senzatetto, fuggiaschi, nomadi, in mezzo a tutto quel casino in pratica, io riconobbi più che mai Firdaus, la sua bellezza zingaresca, impunemente zingaresca, la sua bellezza verde smeraldo, ma anche corvina, sventrata e raminga, che non aveva bisogno di una motivazione, di uno scopo, di una causa, stava là perché doveva solo far dannare, portare scompiglio, destare stupore, sospetto, venerazione, doveva solo vivere.

Entrammo nel locale dove si sarebbe esibito il pianista blues al quale correvo dietro. Anche a Nathan non dispiaceva, solo che non avrebbe mai ammesso un'assonanza seppure minima tra le mie e le sue simpatie musicali. Ci sedemmo su un tavolino noi tre e ordinammo due alcolici (per Nathan l'Appletini, per Firdaus l'Adios Motherfucker) e una Schweppes (per me.)

«Qualcosa mi suggerisce che stai per bere qualcosa di disgustoso,» squadravo di traverso, scettica, la bomba effervescente blu egiziano nel boccale di Firdaus.

«Finché non arriva alla merda che bevi tu.»

«Che hai da dire sulla Schweppes?» Sorseggiavo dalla cannuccia.

Glimpse of usDove le storie prendono vita. Scoprilo ora