Capitolo 13

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Firdaus' pov

Disclaimer: In questo capitolo sono presenti scene che ai più sensibili possono dar fastidio.

Erano venuti a prendermi mentre mio padre dormiva bocconi sul divano, con un avanbraccio penzolante dal bracciolo ed entrambe le mani occupate, una da una birra e l'altra da una sigaretta, che avrei fumato io se le cose fossero andate diversamente.

Quando aprii la porta c'era la solita donna che pedinava me e mio padre da due settimane con la massima cortesia, quasi scusandosi, inventando sempre nuove giustificazioni. «Ho comprato della carne, non sapevo foste qui. Siete quelli che correvano ieri mattina per arrivare a scuola?» «Oh, che piacere rivedervi, stavo giusto per prendere la vostra stessa fermata.» «Ciao, scusate, sapete l'orario?» «Oggi fa caldo, non è vero? Dove vi dirigete? Long Island?»

Quella volta, però, veniva accompagnata. 

Cercarono di acciuffarmi in tre, ma io diedi di matto e presi a cazzotti quello più vicino, che andò dondolando fino a sbattere contro l'altro, e allora corsi a gambe levate pur di non cadere nelle mani dei servizi sociali. Canaglie con le museruole statali che si facevano in quattro per togliere i figli ai civili.

Io sì che non me la passavo bene. 

A dieci anni, vivevo come uno spiantato in un locale in affitto tra la Spencer e la DeKalb Avenue di Bed-Stuy. Sfuggivo agli sbirri e ai creditori che inseguivano mio padre. Facevo le mie prime esperienze con l'erba e le benzo e i banchi dei pegni. Ero assente in classe e le mie poche presenze erano sanzionabili per la serie di zuffe, evasioni, scazzottate e cose del genere. 

In pratica ero il perfetto esempio di un bambino che necessitava dei "provvidenziali" sistemi assistenziali.

Mio padre si destò subito e cercò di aiutarmi, ma non ci riuscì.

Urlava che li avrebbe denunciati, ma qualcuno denunciò lui affermando che fosse ancora ubriaco. 

Mi stavano caricando nel veicolo della sicurezza sociale. 

Mi ero aggrappato al corrimano della ringhiera, ma le dita avevano preso a sudare e avevano perso la presa. 

Così erano riusciti ad afferrarmi una buona volta e a lanciarmi in macchina.

Il giudice era una donna grossa, un pezzo di laterizio grezzo, la voce scabrosa, il seno a punta, severa e giudiziosa, come il lavoro che faceva, con un naso dritto e le mani tozze, che non avrebbero mai potuto battere una sentenza giusta. Lo si capiva subito. 

Infatti mi spedì, "per la mia tutela," in un istituto assistenziale privato, gestito da un lobbista ricchissimo della Florida nonché colui che mi distrusse la vita.

Il suo nome era Archibald Twyman, ma si faceva chiamare volentieri il Mahatma, ossia Maha «grande» e Atma «anima.»

Di lui avevo un ricordo netto, lucido, grottesco. Certe volte credevo di avere la sua fotografia pinzata sulla parte sottostante delle palpebre. Ogni volta che le chiudevo, lui era lì. 

Non si spiegava come riuscissi ad averlo fissato tanto bene in testa. La mia cocciuta testa che quello stronzo aveva sperato di ghettizzare. 

«Vieni qui, ragazzino,» una sera mi afferrò il polso per punirmi perché non mangiavo.

Probabilmente il Me del futuro, se ne avesse avuto l'occasione, mi avrebbe allungato una mano in quell'istante, una mano come ce le avevo ora, grandi, piene di calli, che avevano preso e battuto i peggiori pugni. Mi avrebbe allungato una di quelle per salvarmi da Archibald.

Ma il Me ragazzino di dieci anni forse non l'avrebbe accettata. Avevo le forze raccolte intorno alla sola reminiscenza dell'urlo di mio padre.

C'erano tante cose che avrei potuto evitare in quella notte, in generale in quella storia, se fossi stato più sveglio, più capace di accettare che gli eventi si stavano succedendo anche se mi ostinavo a ignorarli. 

Glimpse of usDove le storie prendono vita. Scoprilo ora