Capitolo 8

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Hancock Street era diversa dal centro di New York, di notte non faceva la vita, era solo una semplice ragazza che rincasava da una serata danzante con gli amici.

Dalla mia camera si osservava senza problemi il sentiero di melogranati che portava ai venti ettari di vigneti, un tempo santuari paesaggistici del mio defunto nonno Nathan.

La mia stanzetta non era cresciuta con me, però paradossalmente questa forzata infantilità me la restituiva ogni anno più evocativa; aveva ancora il soffitto a cassettoni, i peluche sulle mensoline in noce, i poster dei Nine Inch Nails e di Johnny Cash, la mia leggendaria collezione di mucche in scatola, di ampolle di vetro con la neve, al cui interno indovinarvi tutti i personaggi disneyani miniaturizzati dentro, perfino una candela a righe biancorosse che non avevo mai consumata perché era un regalo di Babbo Natale. 

Alle due e mezza circa del mattino, me ne stavo stesa sul mio letto con la luce accesa, ovviamente, e avevo schiuse le finestre affinché blandi sbuffi di vento mi rinfrescassero un po' dalla calura settembrina.

Avevo sentito i ragazzi entrare un'oretta prima, più o meno; adesso con buona probabilità se ne stavano già volti a un profondo sonno.

Quindi mi sembrò strano che qualcuno stesse picchiando ripetutamente al mio battente.

Toc Toc Toc Toc Toc.

Mi issai in piedi strofinandomi un po' gli occhi e con il mio pigiamino violetto di crêpe mi accinsi ad aprire.

C'era Firdaus.

Non era stata una buona idea perché così stralunato, confuso, con le spalle curve, a penzoloni come le tengono sempre i ragazzi alti, sembrava ancora più attraente di quanto pensassi.

Se si fosse guardato un po' di più, sarebbe stato un bel Narciso moderno. Innamorato di sé stesso. Forse per alcuni sarebbe stato meglio.

Si sedette sul letto omettendo di chiedermi il permesso e osservò i suoi calzini neri che pestavano il pavimento a scacchiera bianconero.

Non indossava alcuna maglietta e aveva ancora i graffi che gli avevo visto sulle braccia e sulla schiena, cicatrici rialzate molto scure di colore, avvizzite come se ci fossero da prima che nascesse.

«Perché sei qui?»

Firdaus stava ancora guardando i calzini dopo che chiusi la porta e lo raggiunsi a letto.

«Ho fatto un brutto sogno.»

Non mi aspettavo quella sincerità. «Vuoi parlarne?»

«Ho sognato di essere inseguito da un branco di mostri... no, forse è stato solo uno. O è stato un branco?» si confuse durante il discorso. Parlava molto velocemente. «Per scappare sono entrato in una cascina due chilometri dopo, tipo. Dentro la cascina c'era un carrello di stoppia. Sentendo i lupi, ho barrato la porta con delle travi. Il comico è che ho fatto così in fretta perché volevo fumare dal nervoso. Dopo ho gettato la sigaretta ancora accesa e la stoppia si è incendiata. Io non sono riuscito a togliere le travi in tempo. Non c'erano le finestre. Ho cacciato un urlo che non ha fatto nessun rumore. Il fuoco,» si voltò verso di me, poi sollevò le mani aperte simulando delle scintille. Nel sogno era saltato in aria. «Capito che morte del cazzo?»

«Sognare che delle creature ti inseguano mi sembra che significhi che hai una personalità negativamente influenzata da esperienze vissute in passato, che in qualche modo hanno reso il tuo naturale processo di crescita come cancrenoso. Quando eri bambino forse. Un incendio, invece, potrebbe significare aggressività repressa o poco controllo dei tuoi impulsi. Il grido non lo so, ma se non si sentiva allora deve essere stato qualcosa che hai taciuto. Dovresti lavorare sulla retrospezione.»

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