Capitolo 16

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Firdaus' pov

In una mattina piuttosto ventosa di maggio, avevo circa tredici anni e da poco mio padre aveva riacquistata la mia custodia, ero scomparso.

Tutti mi cercavano.

Papà, che nel frattempo era divenuto ricco, mi cercava. Così mi cercavano anche i suoi dipendenti, la vecchia governante neozelandese naturalizzata statunitense (mi era piaciuto scoparla?), i miei compagni delle associazioni scoutistiche, i Giovani Marines, il comandante di reparto, la mia istitutrice privata di pianoforte (mi era piaciuto scoparla?)

Proprio quest'ultima, Candace Stephens, mi avvistò alla stazione di Sutphin Boulevard dove vi sostavano i treni pervenuti dalla stazione di Jamaica delle linee Z, J ed E. Non ricordavo niente di quel giorno. Avevo tratte le mie illazioni dalla ricostruzione di mio padre. Candace mi aveva trovato mentre camminavo non per la banchina, non sulla linea gialla, non oltre, direttamente sui binari, precisamente fra le trasverse, e in lontananza (o forse no?) aveva udito le rotaie della metro scontrarsi con qualche gruzzoletto sporgente di pietrisco.

Poi, a un certo punto, lei aveva sentito forte e chiaro il segnale di arrivo del treno e senza pensarci due volte (ce ne sarebbe stato il tempo?) si era lanciata a spostarmi dai binari. La Sutphin Boulevard vicino al terreno battuto dove vi passavano i vagoni aveva un grande spazio. Quando la donna mi prese, per non schiacciarla a tutta forza levai subito un braccio verso terra e su quello mi ressi, intanto che Candace Stephens si appiattiva pure lei ballonzolante e minuta sullo stesso ridicolo spazietto sotto di me. A coloro che ci intravvedevano dalla sponda opposta della ferrovia noi così vicini dovevamo dare l'impressione di starci baciando.

Quando mi chiesero come mi chiamassi, chi fossi, dove vivessi, quale fosse il mio paese di appartenenza (l'America, magari?), chi fosse il mio tutelante, quanti anni avessi, che ci facessi in quel dato luogo proprio a quella data ora, sostanzialmente tutte le mie generalità, annettendovi domande generali quali che ne pensassi del tempo e quanto costassero i biglietti (4 dollari durante i giorni festivi e 9,50 durante gli infrasettimanali, ma nemmeno quello ricordavo), io non risposi a niente, esattamente a niente.

Non c'era stato verso di convincere mio padre che non sarei mai ricorso a un tizio che spolverava le teste finché non fossero state vacanti.

Terence Rochowicz cercò il migliore psichiatra della Big Apple e lo trovò: il suo nome era Kevin Welsh, e aveva lo studio presso un distretto impiegatizio di TriBeCa.

Kevin Welsh era un uomo di cinquanta-cinquantacinque anni, dalle fattezze dure, di corporatura alquanto robusta, tuttavia non corpulenta, che tempo addietro doveva aver ricevuto molte licenze e fatto cadere ai propri piedi un mucchio di donne; la parte sottostante del suo volto era così austera che talvolta vi appariva un muso fainesco e intimidatorio, esattamente ciò che non doveva apparirvi quindi, malgrado fosse una persona a modo, assai più delle altre, e avesse una strano savoir-faire nel porsi.

Ero in cura nel suo studio da più di una decina di anni, prendendovi appuntamento tutte le settimane, a cadenza piuttosto regolare, eccetto casi particolari in cui ricadevo con tutte le scarpe in una forma invivibile di depressione, interrompevo il setting farmaceutico e dilazionavo in un futuro lontano i nostri incontri.

Quel pomeriggio me l'ero appena svignata dall'indirizzo con la nuova ricetta di una terapia sperimentale. Il segretario si era buscato un paio di mazzate dal sottoscritto. Avevo tutto il diritto di prendermela se questi non faceva menzione del mio arrivo al dottore Welsh né tantomeno mi consentiva di entrare nel suo gabinetto. Qualcuno uscitovi un minuto prima mi rifuggì a gambe levate con l'espressione che sottintendeva: "allora è vero che ci vengono anche dei pazzi veri qui."

Glimpse of usDove le storie prendono vita. Scoprilo ora