Capitolo 26

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Il compleanno di mio padre era una celebre ricorrenza, infatti nessuno si assentava, neanche i miei nonni materni che vivevano in Francia.

Calzavo un delizioso abito lungo che mi rinserrava la vita con un fascione in crepe.

Per questa occasione, la nostra casa sembrava più un boudoir, con pavimenti incerati, arrazzi di seta nuovi di zecca, divanetti, specchiere e credenze lucidate a specchio.

Numerosi colleghi di papà erano riuniti in bande e tenzonavano tra loro a forza di barzellette fantozziane. Si annunciò anche Terence, e disse che il figlio sarebbe arrivato più tardi. Giunse a proposito poiché mio padre, che un istante prima si stava contando i villi per la noia si illuminò al suo ingresso e si intrattenne a conversarci.

I violinisti facevano sonate in trio su un palchetto centrale, con strumenti da basso di rinforzo, violoncelli, tiorbe e flauti trasversi; era stata commissionata loro qualche canzoncina francese.

Come una trapezista correvo a più non posso, salutavo tutti con un sorriso smagliante, e facevo viste di conoscere chi mi si avvicinava o di starli ascoltando annuendo sempre.

I miei fratelli non se la cavavano granché meglio: erano maschi, più grandi e discutevano con naturalezza di affari. Da quelle parti non avrei ricevuto salvagenti.

Mi toccava solo impressionarmi a comando delle esibizioni musicali e fingere di saperne cogliere le intrinseche valenze.

Ma non funzionava.

Molti mi incensavano con strette di mano festanti; si dicevano incantati del mio cambiamento: mi avevano lasciata giovanetta scontrosa, bruttina, e adesso mi ritrovavano poco meno che donna.

Arrivai a sentire mani dovunque.

A un certo punto, ne sentii una che si infilò sotto il mio braccio e mi strinse forte le vertebre in uno strizzone efferato, come pensasse che le sarei sfuggita se avessi visto a chi apparteneva.

Malvolente mi voltai e mi ritrovai alle spalle Firdaus.

Sorrise alla donna con la quale mi stavo intrattenendo e riaprì la conversazione con destrezza. Stavamo parlando del suo viaggio a Bali e delle usanze indonesiane. Non si seppe come ma Firdaus riuscì a dirottare la conversazione verso i seni delle donne balinesi, formidabili a suo dire.

La donna si risolse in un invaghimento quasi febbrile per questo ragazzo affascinante dai tratti stranieri, che «le ricordava i giaguari melanici di Gianyar», a tal punto da andarsene paonazza, tutta tremante per un'improvvisa vampata.

Cercai di scansarmi per paura che i miei fratelli ci beccassero. «Che stai facendo? Davanti a tutti?»

Firdaus si strinse nelle spalle, recalcitrante a lasciarmi scivolare fuori dal suo abbraccio. Ebbi appena lo spazio per rivoltarmici dentro e finirgli di fronte sollevando la testa per non dare l'impressione che stessi bisticciando con un torace.

Indossava una ritrita giacca da caccia a losanghe con un tascone a soffietto da cui sbucava la testa di uno Zippo; una punta di cera riordinava le ciocche ricciute mantenendole a ritroso. Sembrava un perfetto yuppie.

E sotto questi strati di società c'erano un corpo longilineo, inquartato, e un incarnato olivastro su un viso lucido, quasi porcellanato, dalle forti mascelle squadrate, con un paio di labbra everse, di una pienezza sinuosa.

Lui lo abbassò poi si accipigliò ricordandosi di una cosa. «Cazzo, devo andare a salutare tuo padre. Aspetta qua.»

«Scusa che-» rimasi di nuovo sola soletta.

Ma non per molto. Di nuovo strette di mano, sorrisini, reminiscenze incresciose su un Gladys ancora non ammogliato, tipetti scanzonati che mi offrivano da bere.

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