Capitolo 9

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Nathan aveva scelto di dare una festa nella dépendance.

«Figliolo, che stai facendo?» Mio padre lo interrogava con le braccia incrociate al petto, mentre Nathan stava dando i numeri contro un povero party planner per le disposizioni delle bibite.

«Stasera qui tengo una festa,» rispose Nathan con arroganza, tanto era al corrente di essere il suo figlio preferito. «Ho bordato il perimetro con del nastro, al di là di esso nessuno va' oltre. Noi non disturbiamo voi e viceversa.»

«Chiaro, capito,» mio padre si lisciò il pizzetto, poi venne richiamato dalla mamma perché si tirasse a lucido per l'uscita a tre con Terence.

«Come ci si sente ad essere il primogenito e tenere papà in pugno?» Provocai mio fratello dopo che papà scomparve, tanto non avevo niente di più importante da fare.

«Non lo so, Rendi. Come ci si sente ad essere l'unica femmina e tenere mamma in pugno?»

«Povero Sebastien,» pronunciai allora, «adesso mi è chiaro perché ha la sindrome del figlio di mezzo.»

«Non ho nessuna sindrome,» Sebastien se ne stava appisolato su un pouf con un classico di Rimbaud a nasconderlo dalla luce. «E dì alla tua amica che deve smettere di bussare alla porta di Firdaus.»

«E tu come fai a sapere che lo fa?»

Sebastien si tolse il libro dalla faccia. «Perché evidentemente ha sbagliato porta.»

Sydney arrivò in quel momento, con un abito corto e e dei trampoli di una dozzina di centimetri ai piedi. «Rendi, va' a vestirti. Tra poco comincia la festa.»

«Sono vestita.»

«Sei in canottiera.»

«E sono in gonna preziosa di crêpe de Chine.»

«Va bene, come vuoi,» sollevò gli occhi al cielo.

+++

C'era un casino infernale. La «buona musica» di Nathan doveva essere un concetto piuttosto astratto o quanto meno circoscritto a pochi sapientoni, dato che, dal canto mio, stavo facendo di tutto per tenere salvi i timpani. Non mi aspettavo certamente musica classica o dei violinisti su un palchetto, ma nemmeno quella merda.

Sydney invece si stava ubriacando perché aveva appena scoperto che Firdaus non avrebbe presenziato alla festa in barba alle suppliche di Nathan e di Sebastien. Meglio così.

Stanca delle vessazioni musicali cui ero sottoposta e dello spazietto ridotto che le masse, accalcate serratamente le une sulle altre, offrivano, scantonai all'esterno.

Poiché ero io sola a denunciare qualche problema con la musica, la gente se ne stava in dépendance, e lo spazioso giardino era vuoto.

Da lì, ebbi la visuale della villa padronale e soprattutto della finestra di Firdaus.

Poi, anche Firdaus si affacciò alla finestra, ma non mi notò. Stava solo sporto dal davanzale per fumarsi una sigaretta.

Subito, cercai di darmela a gambe rientrando nel crocchio di discotecari, ma Firdaus disse: «Hey, prendimi una birra.»

Lui mi fissava dall'alto non solo di moltissimi centimetri in più, tutti suoi, ma anche di metri e metri di edera tappezzante e mura portanti.

«Per quale motivo non scendi?»

Mi fece segno di abbassare la voce. «Non urlare, altrimenti la tua amica si arrampica sulle cantonate e mi raggiunge.»

«Dopo quello che le hai detto dubito che vorrà più avere a che fare con te,» lo rimbeccai, mentendo spudoratamente sulle intenzioni di Sydney.

«Questo non me lo dovevi proprio dire. Adesso chiedimi scusa.»

«Non se ne parla.»

Firdaus si accese la sigaretta e si poggiò sul parapetto.

Avrei voluto che il parapetto crollasse.

Mentre ispirava la sostanza cancerogena che tanto gli andava a genio, la fiammella accendeva il filtro e il filtro faceva altrettanto col suo volto.

Doveva esserci qualcosa che lo distruggeva, che lo rendeva vulnerabile, un osso scoperto dove picchiare. Mentre davo da mangiare a quelle cattiverie, lui mi disse: «Aspetta, adesso scendo. Ci andiamo a fare un giro nei vigneti di tuo nonno. Intanto tu prendimi una birra.»

+++

Firdaus aveva una condotta fuori dalla comune prassi, la quale spesso lasciava aperte le porte a teorie strampalate e grottesche sui suoi effetti scatenanti – ovvero non soltanto sugli effetti che la "speciale" condotta scatenava, ma anche da quali "speciali" effetti era stata scatenata in precedenza: parlava pochissimo, solo per necessità o per vivo interesse intorno al tema della discussione, e in maniera estremamente scattante, svelta, mangiandosi talvolta le terminazioni delle frasi.

In realtà, faceva tutto in maniera svelta: parlare, camminare (il che abbinato alla sua ingestibile altezza diveniva senza ombra di dubbio un vero ostacolo al nostro passeggio), pensare, decidere, confondersi e di nuovo decidere, ma poi arrabbiarsi delle sue stesse scelte.

In quel momento, ad esempio, stava provando a convincermi che, se si fosse buttato dal dirupo, non sarebbe morto.

Il dirupo si trovava alla fine dei vigneti e qualche anno prima era un semplice terreno battuto, invece ora, dopo diverse frane, appariva in scoscesa e con vari spuntoni uscenti dal suolo.

Non faceva sul serio, nessuno sarebbe sopravvissuto buttandosi a peso morto là dove la pietra viva lo avrebbe pugnalato.

Ma Firdaus in un baleno, aprendo le braccia, senza neppure darmi il tempo di afferrare la sua felpa e fermarlo, si lanciò. «Smettila di dire che morirò. Io non morirò mai, è tutto inutile.»

«Firdaus! Ragiona, te ne prego. Non fare stupidaggini, Firdaus, stai fe- NOOOOO!!!!!»

Mi coprii gli occhi con entrambe le mani e scoppiai in un pianto strozzato. Per un istante, l'equilibrio mi mancò, quindi mi accasciai a terra ginocchioni, sperando di vedervi sbucare dalle radici il tempo che avevo perduto senza convincerlo a ridursi alla ragione.

Allora, incominciai a correre velocemente per raggiungere la dépendance il prima possibile. Un pezzo degli ABBA rimbombava dalle casse a viva forza.

Senza avere un briciolo di lucidità, ma solo una zavorra in petto di disperazione, assalii il palchetto, dove se ne stava a braccia levate il dj, urlando finché la gola non mi si squarciò: «Qualcuno mi aiuti, cazzo!!!!»

Era la prima volta che dicevo «cazzo» in tutta la mia vita.

+++

Terence aveva scelto di portarlo in aereo fino al New York-Presbyterian Hospital per un immediato intervento neurochirurgico.

Mio padre, intanto, mi assaliva di domande su come fosse accaduto («Aveva uno sguardo cupo? Ti ha parlato di intenzioni suicide? Perché lo hai accompagnato?») e su quale motivo lo avesse spinto («Andiamo, Rendi, deve averti detto qualcosa, deve esserci stata una motivazione.»)

No, non c'erano motivazioni.

Sydney, ovviamente, supponeva di averlo indotto lei stessa a un'azione tanto estrema. «Come ho potuto non notare che stesse soffrendo? Come ho potuto comportarmi in quel modo? Che razza di fidanzata potrei mai essere!?»

Alla fine, me ne scappai in camera e là mi barrai fino al giorno dopo. Smettila di dire che morirò. Io non morirò mai, è tutto inutile. Non sapeva quanto avrei voluto che fosse sincero per la prima volta da quando l'avevo conosciuto.

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