Capitolo 30

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"La Bellezza è una forma del Genio,

anzi, è più alta del Genio perché non necessita di spiegazioni.

Essa è uno dei grandi fatti del mondo,

come la luce solare,

la primavera,

il riflesso nell'acqua scura di quella conchiglia d'argento

che chiamiamo luna."



Firdaus' pov

Tredici anni prima

Per conto dell'istituto ero sempre stato un ragazzaccio. Il tipo di bambino da cui dovevi tenerti alla larga se creare problemi non era una tua priorità. Quello irascibile e iperattivo. Un mocciosetto sdegnoso del cazzo.

Molti dei miei compagni mi imitavano o finivano per credere che gli piacessi, che fossi attraente e che farsi scopare da me sarebbe stato divertente.

Lì dentro dovevi lavorare con quello che avevi a disposizione.

Del resto, io ero quello speciale, il che prescindeva dalla mia malattia o generalmente dal mio atteggiamento; ciò che avevo di diverso riguardava piuttosto l'aspetto.

Non ero americano, né straniero, non ero bianco ma neanche nero, non avevo le labbra piccole degli occidentali o gli occhi tondi. Non ero di lì, e quindi di dov'ero?

I ragazzi erano curiosi.

Non sei americano. Non sei tedesco. Non sei italiano. Non sei polacco. Ma ci dev'essere un posto da cui vieni.

Strinsi delle prime vere amicizie lì dentro, ma non furono molte, dato che ero il "ragazzo preferito del Mahatma", o, per meglio dire, il suo crimine preferito, e chi ne era a conoscenza si teneva alla larga.

Mahatma mi stava con il fiato sul collo, e non facevo niente per fermarlo, diventavo ogni giorno più inerte e la mia mente cercava di uscire fuori dal corpo quando il suo lo violava.

Quel dolore, mentre lo vivevo, mi sembrava che non finisse mai o mai del tutto. 

Provavo vergogna e paura.

Mi dicevo che avevo smesso di combattere perché volevo tutelare mio padre, che adesso era solo e vulnerabile. Ma in realtà avevo cominciato a pensare che fosse colpa mia quello che accadeva nella mia stanza ogni notte.

Sarebbe durato per sempre?

No. C'era un rimedio, una condizione necessaria e sufficiente per smettere di soffrire. Negli anni l'avrei valutata spesso, sempre a un passo dal trasferirla sul piano pratico. Il suicidio.

Smetti di provare dolore solo quando muori.

Mi odiavo per quello che mi stava rendendo. Odiavo la versione di me che stavo diventando per colpa sua.

Ora che ero lì dentro, vestito di capi riciclati, che erano comunque molto meglio rispetto agli straccetti striminziti che rimettevo da anni fino a sforbiciarne le maniche per farci passare le braccia attraverso, ancora non ero convinto che fossi come gli altri, uno di loro, di quei ragazzetti con problemi d'indigenza, tutti dimessi, che non ci sapevano fare con le donne, con la vita, con le esperienze.

E mi stavo rendendo conto che loro erano più che nel giusto.

Ero io quello diverso. Quello sbagliato. Uno scherzo della natura.

Ero io che sapevo come dare piacere a una donna, come sottometterla, una di quelle belle signore che prima passavano per il letto di mio padre e poi, di notte, mi venivano a bussare, discinte, perché – sei proprio un bel bambino, lo sai? Avrei voglia di mangiarti.

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