Capitolo 28

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*siccome credo che possa urtare la sensibilità di qualcuno, tw: famiglia*

Charlene


Un dolore lancinante alla parte superiore del mio braccio, precisamente sulla spalla. Come se qualcosa avesse distrutto la mia barriera e si fosse introdotto dentro, era questo che faceva un proiettile?

Apriva un buco artificiale nella tua pelle, nella tua barriera, e faceva dannatamente male. L'ultima cosa che vidi fu il sangue, troppo sangue che non riuscii a sopportare.

Come sempre persi i sensi appena vidi la mia ferita, la mia mano insanguinata e il liquido rosso colare lungo il mio intero braccio. La testa prese vorticare e la vista si fece subito cotonata, vedevo di sfuggita Ashton di fronte a me e poco dopo neanche più lui.

Solo nero.

Tastai con i polpastrelli il tessuto su cui ero stesa, morbido, soffice e piacevole al tatto. Alzai lentamente le palpebre e sussultai vedendo gli occhioni di Angelina che mi fissavano tristi, gonfi e rossi dalle lacrime.

Merda, ero stata sparata.

Solo in quel momento realizzai davvero cosa fosse successo, ricordai ogni piccolo dettaglio. Stavamo correndo verso l'auto, verso la fuga, ma qualcosa mi colpì fermandoci entrambi.

«Ashton! è sveglia!» strillò Angelina posandomi le mani attorno al viso, le sorrisi debolmente e sentii dei passi pesanti raggiungerci.

I capelli scuri del mio ragazzo entrarono nella mia visuale con impeto, velocemente. «La mia viola..» sussurrò a voce così bassa che giurai di essermelo sognato. «Come ti senti?».

Angelina si scostò e lasciò il suo posto ad Ashton, che non ci pensò due volte a sedersi accanto a me. Prese ad accarezzarmi il braccio sano e si limitò a guardarmi, attendendo la mia risposta. «Sto bene».

Inclinai debolmente il capo verso di lui e lo guardai, iridi verdi scuro. «Sto bene, davvero» ripetei.

Il suo sguardo era serio, dannatamente serio. «Sicura?» domandò.

Annuii due volte di seguito. «Si» affermai il più decisa possibile, stavo bene davvero.

Lo sentii deglutire rumorosamente prima di afferrarmi la mano sinistra e sospirare. «Sai chi ti ha sparato?» sembrò guardare altrove pur di non incontrare il mio sguardo.

«No..» ammisi cominciando ad alterarmi. «Ma tu si.» non era una domanda, era una constatazione.

Le sue iridi dispiaciute incontrarono le mie, fredde e confuse. «Esatto, si..» iniziò con voce calma.

«Prometti di stare calma..», mormorò, «e di ragionare.» concluse con sguardo serio, restai immobile senza dargli la conferma.

Chiunque fosse stato l'avrebbe pagata, al diavolo la gentilezza e calma.

«Hai capito?» ripeté più deciso, alzai un sopracciglio e mi misi sui gomiti ignorando il dolore. «Dimmelo e basta, mi sto arrabbiando».

Sospirò profondamente e mi lasciò la mano, si alzò e restò a guardarmi dall'alto. «Tuo padre era presente, ha sparato lui».

Lasciai che il mio sguardo cadesse piano piano sul suo corpo, fino ad arrivare al mia braccio, quello sano. Spostai gli occhi sull'altro, avevo la parte superiore fasciata con un tessuto bianco, lievemente colorato di rosa a causa del sangue.

Mio padre mi aveva sparato. Mi aveva pugnalato alle spalle talmente tante volte che ormai non contavano più le sue bugie, ma lui mi aveva sparato.

Ignis facit bonaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora